La luce si spense, la tv rimase in silenzio, si spense il brusio di sottofondo del frigorifero dietro la porta della cucina. Tra le fessure della finestra entravano come strisciando i raggi di una luna piena e sfavillante. La melodia del violino dall'altra parte delle sottili pareti si fermò per un momento. Alice e Marco rimasero per un attimo in sospeso: lui seduto rigidamente sulla sedia di un tavolo ancora imbandito, lei stesa sul divano, le gambe lunghe, i piedi a penzoloni oltre il bracciolo. Il violino ricominciò a suonare, il buio continuò a rimanere.
< È andata via la corrente. > Disse Alice senza muovere un muscolo.
< Vado a controllare il contatore. > Rispose Marco alzandosi dalla sedia.
Poi si udirono passi, oltre la porta del loro appartamento. Si sentì chiaramente la voce della signora Rosa del quarto piano: < E' saltata in tutto il quartiere >
< Un'altra volta > rispose una voce profonda.
Si sentì il rumore delle porte che si chiudevano e poi il silenzio, interrotto solamente dal suono del violino della bambina del secondo piano. Marco si risedette sulla sedia.
< E' saltata in tutto il quartiere > Ripeté lui sbuffando e la fronte venne raccolta dalla mano grande, aperta. < Ho sentito >
Il buio sembrava denso, sembrava una bestia dal manto nero che li avvolse in una stretta che però non era né calda, né morbida.
< Dove sono le candele? >
< Nel cassetto. >
< Quale cassetto? >
Alice si alzò dal divano con uno scatto, i suoi passi si diressero fuori dalla sala.
< Non sai mai dove sono le cose in casa tua > Borbottò Alice mentre la sua voce si confondeva con il rumore di cassetti che si aprivano, che sbattevano, oggetti che venivano mossi.
< Casa nostra > La corresse Marco, alzando la voce per farsi udire senza incertezze.
Alice riapparve, Marco poteva vedere la sua sagoma sulla soglia del salone. Così al buio sembrava più alta e più snella, era un giunco che si muoveva al vento. Ricordò per un momento la prima volta che fecero l'amore. Lui era sdraiato nel letto, aveva già spento la luce, pensava che lei avrebbe dormito sul divano come faceva di solito quando gli chiedeva ospitalità dopo una notte in cui avevano alzato troppo il gomito. Invece quella notte lei aveva aperto la porta ed era rimasta lì, appoggiata mollemente agli stipiti, la sua figura che si intravvedeva soltanto nel buio. Poteva ricordare anche esattamente la flessione della sua voce, sussurrata, eccitata e un po' sbiascicante. Gli aveva chiesto se poteva dormire con lui. Solo questo. Lui scostò le coperte senza dirle nulla. Dopo che lei si fu infilata sotto le coperte, lui poco dopo si infilò dentro di lei.
Il flusso dei suoi pensieri venne interrotto quando il buio venne sconfitto dalla luce delle candele. Tre candele magre come Alice, rosse come il sangue. Erano alte, poco consumate.
< È già la seconda volta questo mese... > Disse Marco guardando la luce della fiamma che si muoveva piano, alcune gocce di cera si erano già formate ed una stava per colare lungo lo stelo.
< Già > Disse soltanto Alice e tornò a raggomitolarsi sul divano. Tirò il plaid verso di sé e si coprì il seno. Alice pensò che quelle candele se le stava dimenticando, non fosse stato per quell'interruzione di corrente chissà per quanto tempo sarebbero rimaste ancora assopite dentro la polvere di quel cassetto. L'ultima volta che le aveva prese e le aveva accese era stato due anni prima, lui aveva ricevuto una promozione al lavoro, una promozione che stavano aspettando da anni e che sembrava non sarebbe mai arrivata. Poi lui la chiamò con la voce incrinata dalla gioia. Ci siamo le aveva detto. Quella notizia per Alice significava che c'era la possibiltà che gli avrebbero concesso il mutuo, avrebbero potuto avere una casetta in campagna, una di quelle con il pergolato, l'erba fresca in giardino, le vetrate grandi da cui accogliere le stagioni, una camera in più per accogliere la speranza di un bambino. Un bambino, pensava Alice mentre guardava anche lei il piccolo fuoco attorno alla miccia. Quella sera gli aveva preparato una cena a lume di candela, aveva cucinato il suo piatto preferito, pasta al forno e spezzatino di vitello, avevano bevuto vino e ballato un lento a piedi nudi sul tappeto del salotto. Sullo stesso tappeto avevano fatto l'amore, lentamente come piaceva a lei.
< Mi sa che mi faccio un bagno caldo > Disse Marco.
< Lo scaldabagno non va. >
< Ah già. > Tornò il silenzio. Era molto preciso il modo in cui avevano di interrompersi i vicendevoli pensieri, come se ognuno sapesse perfettamente quale fosse il preciso momento in cui quel fluire onirico doveva morire.
< Mi dà fastidio questo stridio > Disse Alice riferendosi al violino che ancora continuava la sua canzone. Le note si mischiavano in maniera armoniosa, risultato di anni di studio e passione.
< Davvero? Una volta ti piaceva > Marco sembrava svegliarsi e si voltò verso di lei gettando l'ombra della sua schiena contro il mobile tv. La guardava.
< Non credo, ha un modo così... assolutamente perfetto di suonare, sembra di vederle le sue dita, senza un tentennamento, rigide e morbide insieme, la testa che si muove piano, il piede che tiene il ritmo. Non credo che ami quello che fa. >
< Io credo che una bambina di tredici anni che passa ore intere a ripetere la stessa canzone fino a farla diventare perfetta come dici tu, non può che amare quello che fa. >
< Come sei schematico, Marco, sei sempre così schematico! > Alice ritrasse la coperta, si scoprì le gambe e le raccolse contro il petto.
Marco rimase in silenzio un momento, seguì quel movimento di stoffa che scivolava contro la sua pelle e poi quel raccogliersi, lo faceva sempre quando era ferita da qualcosa. Si rannicchiava per lasciare il mondo fuori da sé.
< Tra poco smetterà. > Decise di chiudere così. Era stanco, non voleva provocare una discussione proprio adesso. Sentiva come a pelle che lei voleva litigare.
< Spero lo faccia subito. Dovrei fare un reclamo, saranno quasi le nove, le regole condominiali non dicono che non bisogna fare rumore dopo... dopo che ora? >
< Non lo so. > Fece una pausa Marco, poi si voltò di nuovo verso di lei.
< Dici davvero? > Glielo disse così, con una veemenza che non riuscì a controllare.
< Sì. Le regole sono regole e io mi sono stufata! > Alzò anche lei il tono della voce, la tenne alla stessa altezza della sua come in un concerto.
Le loro voci si fecero consistenti come lo stridio dell'archetto contro le corde dall'altra parte del muro. Il ritmo si fece più incalzante.
< Alice, è una ragazzina! >
< E io per questo non posso stare in pace in casa mia? >
< Ricordo che una volta le facesti i complimenti, avevi detto che l'intelligenza musicale è un talento e che lei sarebbe diventata una grande violinista >
< Ma è possibile che preferisci difendere una ragazzina che incontrerai sì e no una volta al mese sul pianerottolo piuttosto che la tua compagna? > Alice si alzò in piedi e si avvicinò a Marco.
La candela, davanti a quello spostamento, si piegò indietro e poi in avanti e fiammeggiò come ballando.
< Ti devo difendere da una ragazzina che suona il violino? > Marco gesticolava in modo teatrale, un modo di fare che aveva ereditato dalla madre, era una delle cose che dava più fastidio ad Alice.
I due si guardavano con gli occhi scintillanti. La musica si interruppe, era il momento della discesa, le note adesso dovevano diventare un sussurro, il colpo sulle corde un camminare di fata.
< Mi dovresti difendere da tutto! Ma non mi difendi mai da nulla! > Alice fece un passo indietro. La fiamma si mosse di nuovo, in maniera più delicata, come se si fosse già abituata.
< Perché devi sempre amplificare tutto? Si stava parlando di quello! Solo di quello! > Marco spalancò il braccio indicando il muro oltre la cucina. Il dito voleva bucare le pareti, mostrarle la ragazzina, il suo viso serio, i capelli castani portati sempre legati, la sua semplice innocenza.
< Sei tu! Tu che fai diventare sempre tutto più piccolo, piccolo! Problemi che diventano piccoli, discussioni che diventano piccole. IO! Mi stai facendo diventare piccola! Mentre il piccolo qui sei solo tu! TU! > Alice ormai gli urlava addosso una rabbia che fece persino fermare il sussurro del violino pochi metri più in là. Il suo viso delicato e gentile divenne paonazzo e storpiato dalla ferocia. Gli puntava il dito contro come fosse una pistola con il colpo in canna.
< Calmati! > Le urlò lui alzandosi finalmente dalla sedia.
Era molto più alto di lei, il viso della donna gli arrivava quasi al petto. Amava la sua statura, quel suo essere piccola e fragile. Piccola, forse aveva ragione lei.
< Scusami, hai ragione. Se una cosa ti infastidisce... E' giusto così, andrò a parlare con sua madre. Va bene Alice? > La sua voce si abbassò, voleva solamente appianare la situazione, riportarla su un sentiero conosciuto, già battuto. Allungò una mano per prenderle una ciocca di capelli che nella furia le era andato sul viso.
Lei non diceva nulla, lo guardava con gli occhi vuoti. Le ombre delle candele disegnavano sulla pelle del collo come delle onde marittime. Indietreggiò di un passo, abbassò lo sguardo, poi lo diresse verso le candele.
< L'ultima volta che le abbiamo accese era due anni fa. Ti ricordi? Ero così felice, eri felice anche tu. Mi si apriva tutta la speranza di quello che sarebbe stato. Quel giorno per andare a fare la spesa per la cena avevo preso la bicicletta, la graziella bianca, quella in cantina. Pedalavo, c'era un vento tiepido, canticchiavo la nostra canzone e pensavo che tutto potesse finire, ma che il nostro amore sarebbe sopravissuto a tutto. Pensavo ai tuoi occhi quando avresti visto queste candele accese per te. > Alice fece una pausa e sollevò una mano, la passò sulla fiamma e i polpastrelli delle dita divennero scuri. Puntò gli occhi su di lui.
< Non sono più felice, Marco. >
< Alice... >
< Non ti amo più. >
Marco non riuscì a dire nulla.
Dopo pochi istanti tornò la luce in tutte le stanze, la tv si riaccese mostrando la scena di due uomini che si stavano puntando un coltello alla gola, dalla cucina tornò il brusio del frigorifero. Marco e Alice, in piedi in silenzio l'uno davanti all'altro, pensarono entrambi che fosse ironico che nello stesso momento in cui riapparve la luce, si fece buio nei loro cuori.
Alessia Di Laurenza nasce nel 1987 in Brasile, cresce in Svizzera per poi trasferirsi a Torino a 21 anni per intraprendere la carriera universitaria con l’indirizzo di Scienze e tecniche psicologiche.
Appassionata di scrittura da sempre, si diletta nella stesura di racconti brevi, nel 2011 vince un concorso letterario e il suo racconto verrà pubblicato in un’antologia nel 2017.
Nel 2012 un suo monologo viene sceneggiato in un teatro a Milano.
Immagine di copertina di Heorhii Heorhiichuk
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