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Perché è necessario salvare l'autogestione (e il CSOA Il Molino)

di Grazia Rosato


Venti giorni di tempo concessi al Molino per sgomberare l’ex macello di Lugano, venti giorni che, di fatto, mettono in discussione, dopo oltre 20 anni, il futuro dell’autogestione a Lugano.


Se il Municipio sembrava inizialmente orientato ad aprire un dialogo con il Centro sociale, a farlo propendere in modo drastico per lo sgombero – che sarebbe probabilmente inattuabile per chiunque in 20 giorni – sono stati la manifestazione femminista non autorizzata avvenuta alla stazione di Lugano l’8 marzo, in cui Il Molino ha espresso il suo punto di vista, tra altri temi, anche sul risultato della votazione sul divieto di dissimulazione del volto, e i fatti avvenuti a Molino Nuovo in ottobre, quando durante una manifestazione una ragazza aveva dato una testata a una giornalista de La Regione, e la fontana di Piazza Molino nuovo era stata imbrattata con una scritta.


Decisione improvvisa quella del Municipio, che sembra – nonostante si dica il contrario - mettere definitivamente fine alla volontà di aprire un dialogo e una riflessione comuni attorno all’autogestione. Proprio per queste ragioni appare invece ancora più urgente riflettere su cosa sia davvero l’autogestione, riflessione che – oltre a partire dall’interno di chi l’autogestione la vive e la porta avanti ora, e oggi fa parte dell’Assemblea del CSOA Il Molino - deve necessariamente coinvolgere l’intera società, proprio perché l’autogestione non è un fatto privato, non è un’esperienza di pochi o un’esperienza individuale, che appartiene solo a chi la vive in un dato momento storico, ma è un’esperienza collettiva che trascende le contingenze storiche e riporta a un certo modo di intendere la società, a un certo modo di autodeterminarsi, di convivere che ci riguarda tutti.


In passato ho frequentato a lungo – dal momento in cui l’ex Macello è stato occupato fino a pochi anni fa – il Molino; non ho mai fatto parte dell’assemblea perché ero presa da altre questioni, ma ne ho vissuto lo spirito, ho partecipato alle manifestazioni organizzate, ho vissuto l’occupazione, ho partecipato a eventi di vario tipo, dalle cene solidali ai concerti fino alle conferenze e agli incontri di poesia. Al Molino ho passato molti dei miei pranzi quando andavo al liceo, ho conosciuto la maggior parte delle persone che hanno portato avanti il progetto nel tempo, ho preso in prestito libri e spillato birre. Insomma, pur non facendo parte dell’assemblea, pur non partecipando alle riunioni, ho vissuto il Centro sociale, ne ho respirato le idee, ho fatto incontri per me significativi che forse avrebbero potuto svolgersi solo lì, in un luogo in cui c’è sempre stato spazio per tutti, dall’immigrato allo studente, dal professore all’operaio, dalla madre con i suoi bambini a persone con problemi di tossicodipendenza. Un’eterogeneità che a tanti può far paura, ma che invece è fonte di ricchezza, perché insegna il valore dell’accoglienza, insegna che nessuno è riducibile a una categoria, ma che in ognuno di noi ci sono luci e ombre, errori e slanci generosi. Nessuno è mai stato chiuso fuori dalla cancellata del Molino, se non chi spacciava, inneggiava all’odio o diventava violento.


Ed è su questa violenza che vorrei tornare, violenza di cui il Centro sociale è stato accusato – per le azioni isolate di una manifestante una volta e per una presunta carica nei confronti della polizia che in realtà è ancora tutta da accertare, e vedeva contrapposti da un lato poliziotti in tenuta antisommossa e dall’altro manifestanti disarmati - ma che in realtà non è mai appartenuta al Molino, e di cui non si trova traccia in nessuno statuto, in quanto non è una costituente delle sue lotte, anche se alcuni comunicati, come quello rilasciato dopo i fatti della stazione di Lugano e le minacce di sgombero, in cui si legge “Con determinazione, complicità e tanto amore. Ma – se necessario – anche con sassi e bastoni. Ci si vede per strada. Qui siamo e qui restiamo.” potrebbero far credere il contrario.


Slogan del genere appaiono però più come una retorica ereditata da certe lotte avvenute altrove e da un linguaggio che appartiene agli anni ’70, piuttosto che alla storia dell’autogestione in Ticino, che si è sempre svolta negli anni attraverso manifestazioni pacifiche fin da quella prima volta nel 1996 che ha portato all’occupazione dei Molini Bernasconi. Si tratta, insomma, di una metafora usata per simboleggiare la volontà di lottare per difendere il Centro sociale e l’autogestione, più che di un incitamento alla violenza.


Da quel lontano 1996 le cose sono certamente cambiate, sono cambiati i volti, migliaia di persone sono passate prima dai Molini Bernasconi, poi dal Maglio, in cui il Centro sociale è rimasto 5 anni prima di trasferirsi nel 2002 all’ex Macello di Lugano, concesso in uso attraverso una Convenzione stipulata dall’Associazione Alba in rappresentanza de Il Molino e dal Municipio dell’epoca.


25 anni di storia che non sono stati segnati dalla violenza o da disordini di ordine pubblico – anzi, si potrebbe dire che il Molino ha dato un luogo a quei tanti giovani che altrimenti sarebbero stati in mezzo alla strada a intrattenersi chissà come in una Lugano in cui non esistevano ancora né il Longlake Festival né il Foce né il LAC - bensì da proposte culturali di vario tipo: pranzi e cene solidali, raccolte fondi per cause a sostegno delle minoranze oppresse e perseguitate, concerti, rassegne cinematografiche, conferenze, eventi di poesia, performance artistiche. Quei giovani che negli anni sono passati dal Molino, come me, si sono sentiti parte di qualcosa, hanno scoperto idee, generi musicali, movimenti, sono stati accolti in uno spazio di espressione e condivisione come non ce n’erano e non ce ne sono altri a Lugano.


Il Molino negli anni è stato luogo di incontro e confronto e non di scontro, è stato spazio di libertà in cui individui e collettivi di vario tipo hanno potuto portare le loro proposte, hanno potuto intavolare discorsi, hanno potuto perseguire iniziative. Tutto questo l’ha fatto senza perseguire profitto; la maggior parte degli eventi sono sempre stati gratuiti o con costi irrisori, come quei 5 franchi d’entrata devoluti poi il più delle volte alla causa attorno a cui era incentrata quella o quell’altra serata. È vero che ha potuto farlo anche perché non pagava l’affitto – accordo d’altronde concesso dal Municipio dell’epoca - ma ha invece pagato regolarmente fatture dell’energia, acqua, rifiuti, non ricevendo alcuna sovvenzione pubblica.


Quando sui social si leggono i commenti di chi chiama gli autogestiti lazzaroni, parassiti, mantenuti , bisognerebbe rispondere semplicemente dicendo la verità, ovvero che il Centro sociale non ha ricevuto sovvenzioni, a differenza degli altri enti culturali che operano sul territorio e che sono spesso meno inclusivi de Il Molino , e che portare avanti il Centro sociale non è un lavoro retribuito, ma si tratta di volontariato, motivo per cui quelli che vi partecipano hanno altri lavori, altre occupazioni da cui traggono i soldi che gli servono per vivere. I cittadini luganesi possono dunque dormire tranquilli, nessuno di loro ha regalato niente al Centro sociale.


Ultima critica avanzata sui social alla quale vale forse la pena di ribattere, è quella che imputa al Molino la responsabilità della decadenza degli spazi dell’ex Macello, spazi che invece erano abbandonati al loro destino e al degrado prima che il Centro sociale vi si insediasse. Con i miei occhi ho visto gli interni dell’ex Macello prendere forma, ho visto persone intente a ristrutturarne le stanze e a cercare di rendere vivibile un luogo che, di fatto, era stato fino a quel momento abbandonato a se stesso.


Al di là del gioco delle parti, al di là delle critiche di chi non conosce la realtà specifica del Molino, è forse però utile interrogarsi soprattutto sul significato dell’autogestione, sul suo funzionamento, sulle sue ragioni d’essere, senza i quali è impossibile capire anche alcune dinamiche che riguardano il Molino.


Autogestione: dinamiche assembleari e dialogo

Al centro dell’autogestione c’è infatti l’assemblea, assemblea che non presenta alcun tipo di gerarchia al suo interno e attraverso cui si prende ogni decisione tramite il dialogo, l’esposizione dei propri argomenti, il confronto tra visioni differenti. Al Molino, poi, l’assemblea, oltre a non avere un presidente o un qualsiasi tipo di struttura gerarchica, non prende le sue decisioni attraverso una votazione, ma ogni decisione deve venire presa all’unanimità. Questa caratteristica fondante dell’autogestione luganese comporta ovviamente tempi lunghi, dato che ogni scelta deve essere condivisa, valutata, mediata attraverso il dialogo e il confronto tra visioni, che non saranno certo sempre fin dal principio comuni a tutti i partecipanti. Processo lungo, che sicuramente mal si adatta ai tempi della società capitalistica o alle intimazioni di sgombero in venti giorni. Che il Molino non sia aperto al dialogo – cosa di cui viene accusato dalle autorità – è un’accusa che si può quindi ritenere infondata, dato che i tempi lunghi e l’assenza di un rappresentante ufficiale sono invece propriamente dovuti alla modalità dialogica sottointesa dalla dinamica assembleare che lo costituisce. D’altronde l’ultima assemblea pubblica è stata indetta sabato 20 marzo alla foce del Ciani, mostrando un’apertura a un dialogo verso la società tutta e dunque anche verso le autorità politiche, che avrebbero potuto tranquillamente presentarsi e prendervi parte.


Uno spazio culturale che rimarrebbe vuoto: nessuna alternativa concreta all’autogestione

Non tutte le attività culturali di una città devono essere istituzionali e istituzionalizzate, altrimenti c’è il rischio che la cultura proposta sia sempre solo quella che viene approvata dall’autorità, perdendo di fatto tutta una varietà di proposte alternative, che non si uniformano per ragioni estetiche, stilistiche o ideologiche ai canoni dell’autorità o delle persone a cui essa ha delegato il potere. Vale la pena allora riflettere sui luoghi attualmente predisposti alla cultura a Lugano.


C’è il LAC, che appartiene alla città e ha ovviamente un direttore artistico, luogo di cultura “alta”, con una programmazione internazionale, costi importanti, un pubblico di riferimento che comprende una popolazione adulta, con capacità finanziarie e in cui vanno – per le ragioni di cui sopra - proposti spettacoli in grado di attirare un vasto pubblico pagante.


C’è il Foce, la cui programmazione è in mano al Dicastero giovani e cultura, ed è certamente più trasversale di quella del LAC, più rivolta a un pubblico giovane, anche per quanto riguarda i costi. Per quanto la programmazione sia eterogenea, e lasci spazio anche ad artisti meno conosciuti e a realtà del territorio, e pur trattandosi di una proposta variegata e interessante, si tratta comunque di un ente che appartiene alla città e che, proprio per questa ragione, non può concedere liberamente i propri spazi a tutti quei giovani che vorrebbero farsi conoscere e ai loro progetti.


C’è poi la Casa della Letteratura, che ha sede a Villa Saroli, uno degli edifici più belli della città, ed è gestita da un comitato direttivo e da una commissione che ne decide la programmazione, programmazione che tende a includere soprattutto voci già note o appartenenti a un certo canone.


In questo scenario appare chiaro che a Lugano, all’interno dei circuiti canonici, vi è poco spazio per proposte che giungono dal basso, ossia dalla stessa popolazione, da chi scrive, fa arte o musica, e soprattutto vi è poco spazio per chi offre qualcosa di inconsueto, di innovativo, di diverso da ciò che viene proposto solitamente nei luoghi ufficiali della cultura. Ci sono poi i piccoli teatri, spesso troppo piccoli per lasciare spazio a tutte le realtà del territorio, o i centri culturali in mano a collettivi o piccole associazioni che, come ho già scritto in un precedente articolo pubblicato in tempi non sospetti, sono forse una delle poche realtà che ancora riescono a dare spazio a voci marginali ma interessanti che negli spazi istituzionali e nei canali ufficiali, questo spazio invece non lo trovano. Si tratta di realtà come il Turba, il Morel (che a causa di mancati permessi ha dovuto chiudere), Sonnenstube, spesso però anch’esse, come il CSOA Molino, ostacolate o non incoraggiate dalle autorità o da un vicinato sempre in cerca di quiete nonostante abbia scelto di vivere in città.


Il Molino, con la sua sala di registrazione aperta a tutti, con i suoi locali che, se disponibili, vengono concessi a chi lo richiede, con lo spazio EDO, in cui si trova vario materiale di controinformazione, volantini, opuscoli, libri, periodici prodotti generalmente da realtà ed editori di movimento, quindi non reperibili altrove nella regione, con la sua palestra autogestita, con la sala concerti in cui suonano da gruppi famosi a gruppi sconosciuti, con le sue rassegne cinematografiche dedicate a temi che trovano poco spazio altrove – come la rassegna Trans-femminista-Queer, per citarne una – e con le conferenze dedicate a ambiti e movimenti della sottocultura, rimane uno spazio multidisciplinare libero, che non ha eguali a Lugano.


Uno sguardo critico verso il sistema

Dal Molino sono passati corpi, voci, esperienze diverse nel corso di questi 25 anni. Si sono susseguite le storie, gli incontri, le amicizie. Ciò che rimane e lega quel lontano 1996 dell’occupazione dei Molini Bernasconi a oggi è una linea ideologica, il suo essere contro il sistema capitalistico, contro il fascismo, contro l’autoritarismo. La tutela dei diritti delle minoranze e delle donne – che minoranza non sono ma non godono ancora di uguali diritti all’interno della nostra società, ed ecco le ragioni per cui un corteo è ancora necessario l’8 marzo, anche nel 2021 - una visione del mondo in cui prevalgono l’aiuto reciproco, la solidarietà, le lotte per la salvaguardia dell’ambiente e per i diritti dei migranti, dei lavoratori precari, dei popoli che cercano l’autodeterminazione.


In un suo celebre libro Mark Fisher – riprendendo le parole di Margaret Thatcher – ha posto la questione che “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo” nonostante in molti ne riconoscano i limiti, nonostante le disuguaglianze che crea siano ormai sotto gli occhi di tutti. Il Molino davanti a queste storture non ha mai chiuso gli occhi, non si è mai voltato dall’altra e ha esercitato, negli anni, una costante critica al sistema capitalistico, proponendo modi più solidali e equi di stare al mondo, e di fatto non accettandolo come (unico) sistema possibile.


In un momento storico in cui il capitalismo ha mostrato, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, le sue profonde storture - tra cui la deforestazione, lo sfruttamento animale e ambientale che hanno portato alla diffusione del Covid, la maggiore mortalità in molte nazioni delle fasce più deboli della popolazione che non hanno accesso alle cure sanitarie, vivono pigiate in alloggi troppo piccoli, sono state costrette a lavorare anche quando tutti gli altri potevano praticare lo smartworking, e ancora la privatizzazione dei vaccini, la volontà delle case farmaceutiche in mezzo a una pandemia mondiale di non rendere pubblici i brevetti, e altre forme di sfruttamento umano e ambientale - sgomberare un luogo che si è sempre fatto carico di incarnare il dissenso verso tutto questo, è profondamente lesivo non solo della libertà dei molinari ma di quella di tutti quei cittadini che non vogliono limitarsi a girare la faccia dall’altra parte davanti allo sfacelo della nostra società e del nostro sistema economico e sociale.


Cos’è la democrazia?

Sgomberare il Molino, soprattutto in un momento come questo, equivale dunque a legittimare una gerarchia tra le visioni del mondo, significa ammettere che esistono idee accettate e accettabili e altre che vengono messe a tacere, non perché immorali o criminali, ma semplicemente perché fuori dal coro, dissonanti rispetto ai partiti politici al potere. Dobbiamo allora chiederci se questa è democrazia.


È democrazia togliere la voce a una fetta della popolazione? È democratico toglierle gli spazi in cui manifestare il suo dissenso senza proporle alternative? È democratico smantellare ciò in cui tanti hanno creduto, riversato le loro energie, investito tempo, progetti, fatica?


Davvero Lugano vuole diventare una città del pensiero unico in cui esistono cittadini le cui idee meritano di essere difese ed esistono cittadini di serie B, le cui idee, perché non in linea con quelle della maggioranza al governo, devono essere osteggiate? Fa così male, a una certa parte della popolazione, vedere che ce n’è un’altra che ha un modo diverso di concepire l’esistenza e la comunità umana?

Una città non dovrebbe invece essere un luogo di coesistenza e convivenza delle differenze, in cui chiunque possa trovare uno spazio in cui sentirsi rappresentato, accolto, in cui trovare una propria dimensione? Perché i tanti odiatori dei social non si chiedono, invece, perché il Molino gli dia così tanto fastidio, se non sia la loro coscienza, in fondo, a volerlo mettere a tacere per non vedere che un altro modo di vivere e convivere – al di là del razzismo, del timore del diverso, dell’individualismo sfrenato, della ricerca del profitto - è possibile?


Forse tutti i cittadini dovrebbero ricordarsi che questo atteggiamento autoritario, questo voler mettere a tacere chi non la pensa in modo differente, che è oggi usato contro il Molino, non appartiene alla democrazia a cui tanti si appellano, ma è invece particolarmente caro a certe dittature.

Sono convinta, in fondo, che non appartenga nemmeno alla Lega e al Municipio, che a lungo aveva parlato di altre soluzioni, di trovare altri spazi, lasciando aperta, prima di questa intimazione di sgombero, la possibilità di un dialogo. Personalmente auspico che la volontà di instaurare un dialogo, di aprirsi al punto di vista dell’altro, di confrontarsi su temi importanti quali la libertà, l’autogestione, la convivenza pacifica tra sguardi anche profondamente differenti, possa essere ritrovata da entrambe le parti, sia dal Molino sia dal Municipio.


Più in generale, come cittadini, forse dovremmo ricordarci che tentare di eliminare le voci contrarie e le differenze culturali è un atteggiamento autoritario di intolleranza profondamente antidemocratico, che non guarda in faccia a colori, idee, persone, ma che può toccare tutti; questa volta si ritorce contro il Molino, ma la prossima volta potrebbe toccare a qualcun altro, a me, a te, a voi.


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