di Alessia Di Laurenza
Sono passati diversi anni da quando la mostra chiamata “The human body exhibition” - da qualche mese visibile anche a Lugano - approdava per la prima volta a Torino. Io mi trovavo nel capoluogo piemontese per frequentare l’università e avevo sentito parlare dell’evento perché accompagnato da non poche polemiche. Veri corpi umani, plastinati ("La plastinazione è un procedimento che permette la conservazione del corpo umano tramite la sostituzione dei liquidi con polimeri di silicone. Questa tecnica rende i reperti organici rigidi e inodori, mantenendo inalterati i colori." Cit. Wikipedia) e messi in mostra in pose. Ero giovane e sempre a caccia di emozioni forti, volevo anch’io poter dire la mia sul controverso argomento in voga e così ci andai.
Ricordo della mostra la cornice nera, come a permettere al visitatore di concentrarsi
solo ed unicamente sulle opere. Sui corpi, per essere più precisi, morti che sfilavano immobili ognuno in maniera diversa, ognuno piegato, stirato, ingobbito nella sua posizione. Mi faceva effetto la monocromia: rosino rossastro, giallognolo pallido, bianco, rosso, al massimo qualche nota più scura vicina al marrone.
Ricordo di aver pensato quanto fossero simili e nello stesso tempo completamente diversi dalle figure sui libri e dalle immagini nei documentari. C’era qualcosa che li teneva su due livelli diversi nonostante fossero l’uno la rappresentazione dell’altro; perché anche quei corpi reali, per quanto reali fossero, erano stati trattati, modificati, per dirci qualcosa, per “finalità puramente didattiche e scientifiche», citando gli inventori stessi.
“Sono fatta così, siamo fatti così.”, continuavo a ripetermi guardando le fibre muscolari, le ossa, le pieghe del cervello e ci trovavo bellezza, ma anche complessità, così tanta da lasciare a bocca aperta, così tanta da farmi fare un silenzioso plauso a quella macchina, alla quale badavo così poco ( e che trattavo anche piuttosto male ), che era il mio corpo.
Ma se gli inventori del format volevano dare solo un’impronta educativa e scientifica a quei corpi immortali, c’erano riflessioni ben più profonde che emergevano guardando quei manichini di carne. Erano morti. Stavo guardando dei morti, dei cadaveri, erano lì, davanti a me, come in un cimitero senza terra con i coperchi delle bare alzati. Quella figura sezionata in più parti, perfettamente tagliate, che mimava una corsa, ad esempio; era stato un uomo che forse correva davvero, forse per prendere la metro, per andare a lavoro, un lavoro in cui sorseggiava il caffè davanti alla macchinetta, come facevano tanti. Quelli che stavamo osservando, come si guarda una tela di Van Gogh o una statua di Botero, erano persone come quella che sono io.
È difficile non farsi prendere da quel pugno nello stomaco che ti ritorna indietro nel rendersi conto che sì siamo corpo, un corpo che morirà e che quando accadrà non potrà più nulla.
È facile, o meglio comprensibile, che quella mostra abbia portato con sé le polemiche che vedevano dissacratorio quanto veniva esposto e come veniva esposto. Perché ad essere esposti siamo noi, la nostra fugacità, la nostra materialità. Siamo figli cartesiani che si aggrappano con le unghie al “Cogito ergo sum”, dimenticandosi del resto, dell’altra parte: il supporto, il contenitore o come volevano i cognitivisti, il computer.
Questa riflessione nasce perché non ricordo ci siano state polemiche per i musei egizi e le loro mummie, eppure non si tratta d’altro che di corpi. Corpi più antichi, indubbiamente, ma pur sempre cadaveri. Qual è il numero di anni che deve passare per rendere l’esposizione di un corpo morto accettabile? Oppure deve trattarsi di cadaveri di egizi? In realtà non credo sia la data di morte né la sua origine geografica a fare la differenza ma è la somiglianza che c’è tra noi e loro. Quando guardo le mummie non riesco a dire “sono fatta così, siamo fatti così” ( tranne quando mia figlia non mi fa dormire e devo trascinarmi in giro più morta che viva, ma questo è un altro discorso ). Le mummie sono accettabili, non mi fanno pensare che morirò anch’io, le mummie sono buone, non mi danno quel pugno allo stomaco di cui parlavo prima.
Ma torniamo indietro, alla me universitaria torinese che guarda l’uomo sezionato che corre immobile in quel color rosa rosso biancastro e pensa alla vita da vivo del cadavere che ha davanti. O peggio, quando sono andata avanti e c’era quella virgola di carne che era un feto nella pancia della sua mamma. Era morto anche lui, prima ancora di essere nel mondo.
Guardando loro e tutti gli altri ho deciso che no, non erano l’uomo alla macchinetta del caffè, né il bimbo che scalciava nella pancia della sua mamma, erano i corpi dell’uomo alla macchinetta del caffè, il corpo del bimbo che scalciava nella pancia della sua mamma. Io non sono il corpo che mi muove, il corpo che morirà, tanto quanto non sono i pensieri che mi attraversano e le emozioni che provo, superando lo storico ed ineluttabile dualismo mente-corpo posso ritrovare in ciò che io sono, nella mia immensa, intima, complessità, un po’ di dignità.
E allora che sia nel mogano, che sia a galleggiare sul Gange, che sia in corpi altri per farli vivere, che sia tra le mani di studenti di medicina o in una sala del centro esposizioni di Lugano io non sarò io, sarà solo una parte di me.
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