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Perché Michela Murgia (mi) mancherà

di Lia Galli


Foto ANSA


Quando l’11 agosto ho saputo che Michela Murgia era morta, io ho pianto. Mi imbarazza un po’ scriverlo, ma è così. Non ricordo che mi sia mai capitato alla morte di uno scrittore, di un artista o di un personaggio pubblico, dunque, dato che queste lacrime hanno colto me stessa di sorpresa, ho provato a riflettere sui motivi per cui questo era accaduto.


È a quel punto che mi sono resa conto che le ragioni erano molteplici e valevano forse la pena di essere messe nero su bianco, perché quelle lacrime non avevano a che fare solo con ciò che Murgia aveva saputo trasmettere a me – anzi, avevano a che fare con me solo in minima parte – ma avevano a che vedere soprattutto con le tante diramazioni di discorso che Michela Murgia ha saputo costruire negli anni.


Negli ultimi mesi, tra le prime azioni delle mie giornate, c’era la visione delle storie Instagram di Michela Murgia. Un po’ era per sapere come stava, per accertarmi che stesse (quasi) bene – come si farebbe con un’amica, con qualcuno con cui si è instaurato un legame - e un po’ era perché sapevo di trovare nelle sue storie un commento, un’idea, un’immagine che mi avrebbero fatto riflettere.


Mi sono chiesta, quindi, perché? Perché la morte di Michela Murgia ha avuto un impatto emotivo così forte su di me, come su tanti altri? Perché sentivo la necessità di leggerla, ascoltarla e seguirla perfino sui social per conoscere il suo punto di vista sui fatti del nostro tempo? Perché so già fin da ora, in maniera così netta, così certa, che Murgia mancherà e lascerà un vuoto difficile da colmare?


In queste righe provo a rispondere a queste domande, pur sapendo che le mie risposte saranno necessariamente parziali, lacunose. Per provarci dovrò inevitabilmente parlare anche di me stessa - visto che ogni scrittore o scrittrice trasmette qualcosa di diverso a ognuno di noi (ed è questo il bello della letteratura, il fatto che non impone una visione dall’alto, ma lascia il lettore libero di costruire tra le pagine anche il proprio discorso, che gli consente di prendere, da quelle stesse pagine, ciò di cui necessita) - ma in realtà penso che l’impatto che ha avuto su di me non sia riconducibile solo alla mia esperienza, perché riflettere su ciò che Murgia ha significato e ha costruito, e di riflesso, in un contrapporsi di pieni e di vuoti, anche sull’enorme vuoto che lascia, credo che possa dirci qualcosa sull’essere umano - sui nostri desideri, sulle nostre paure – così come può dirci qualcosa sul ruolo che gli intellettuali dovrebbero avere all’interno della nostra società, e sul tempo in cui ci troviamo a vivere.


Un punto di vista divergente sulle cose

La prima risposta che mi sono data riguarda la capacità di Michela Murgia di avere un punto di vista divergente sulle cose. Non diceva mai nulla di scontato, non annoiava mai. Basta ascoltare una qualunque sua intervista o discorso pubblico per appurare questo. Michela Murgia aveva la straordinaria capacità di esprimere con chiarezza un punto di vista obliquo sui fatti, mostrandoti uno spiraglio inaspettato, un particolare che non avevi notato, un’associazione di idee nuova. Credo che riuscisse a fare questo, perché aveva la capacità e la cura di trovare la parola esatta, per cui, quando la ascoltavi esprimersi con quella apparente naturalezza, ti rendevi conto che quella parola che lei era stata in grado di scovare era necessaria, e sparigliava davvero le regole del gioco, svelando una nuova sfumatura di pensiero, scardinando la pigrizia dei luoghi comuni e delle convenzioni con cui si è soliti osservare la realtà.


La sua capacità di risalire all’etimologia delle parole, di sviscerarne le ambiguità e di ripartire da lì, dalla loro essenza, mi ha regalato più volte delle piccole epifanie, degli sguardi nuovi, delle rimesse in moto del pensiero. Per Michela Murgia d’altronde “le parole non sono mai solo parole”, dato che “nominare le cose è il primo atto di responsabilità che si fa verso il mondo. Dal nome che tu scegli deriva il comportamento che tu avrai nei confronti di quella situazione, di quella persona, di quella circostanza.”[1]


L’esattezza della lingua diventa quindi esercizio etico, che si concretizza poi in azione, in militanza, in cura dell’altro.

Questo uso consapevole ed etico della lingua, questo ricercare l’esattezza, questo ripartire dall’etimologia, dall’essenza delle parole per provare a dire le sfumature del mondo è qualcosa da ricordare, qualcosa da tenere stretto, perché “le parole buone sono quelle che fanno giustizia”.



La vita è in sé politica

Come ha scritto Chiara Valerio ricordando Murgia, “Michela ha ribadito con ogni parola – frasi senza vezzeggiativi, senza troppi aggettivi – che la vita è in sé politica. Ha a che fare cioè con la relazione”. Questo Valerio l’ha affermato anche nell’intenso messaggio di saluto a Murgia pronunciato in chiesa, durante il funerale: “Michela dirà che la cucina è politica, che le donne sono politica, i sampietrini sono politica, che ridere è politica, vestirsi è politica, scrivere è politica, parlare è politica, ascoltare è politica”.



Non stupisce, quindi, che negli ultimi mesi della sua vita Murgia abbia voluto condividere il suo privato e la sua famiglia. Se ciò che è pubblico è privato, in quanto ciò che avviene nella società ci riguarda personalmente – o almeno dovrebbe riguardarci personalmente – anche ciò che accade nel privato può essere motore di cambiamento nella società, può essere un modo per illuminare anche le esistenze di altri. Diventa poi un atto politico, di contestazione e di resistenza in un momento in cui “l’Italia è infiammata dalla retorica sulla famiglia tradizionale come modello non modificabile”[2]. Lo diventa perché “da decenni molte persone trovano in autonomia soluzioni alternative per garantirsi una qualità di relazione e una sicurezza di vita che non è più possibile raggiungere con il modello familiare previsto dalla legge attuale. Lo Stato le ignora, nel migliore dei casi, o le perseguita, come sta avvenendo con la guerra per la cancellazione delle genitorialità da Gpa o non binarie”[3].


Dare una visibilità e una rappresentazione pubblica a queste soluzioni private diventa quindi un atto politico che permette di allargare il discorso, di mostrare concretamente che avere un unico modello di riferimento di famiglia non solo è anacronistico, ma incide anche sulla personale ricerca della felicità delle persone. È una violenza che viene fatta ai corpi, ai desideri, alle relazioni stesse. La riflessione pubblica di Murgia sui legami, di sangue e non, apparentemente iniziata scegliendo di raccontare la sua Queer family, in realtà non risale a questi ultimi mesi, che rappresentano invece solo una tappa di un discorso cominciato ben prima, tanto tempo fa, ai tempi di Accabadora, romanzo che propone uno straniamento del punto di vista sui legami famigliari fin dalla dedica: “A mia madre. Tutt’e due”[4].


Raccontare la propria famiglia, raccontare il proprio rapporto con la consapevolezza di morire, narrare le proprie gioie e i propri dolori, le proprie battaglie e i propri entusiasmi diventa dunque un modo sia per non far sentire solo nessuno sia un atto politico che consente di mostrare che esistono infiniti modi di vivere i rapporti umani e gli avvenimenti della vita, e che ciascuno può scegliere i propri modelli o crearne di nuovi, più simili alla propria persona, che coincidono meglio con la propria percezione di sé, delle relazioni e dell’amore, anche perché la prassi e le esistenze delle persone sono già spesso ben più avanti delle leggi e ben distanti dai modelli culturali che vengono imposti e nei quali si cresce.


Sentirsi dire che è condiviso, sentirsi dire che è legittimo e che altri modelli relazionali sono possibili fa quindi un’enorme differenza per tutti coloro che questi modelli alternativi di famiglia li vivono già, o vorrebbero viverli, ma non hanno tutele e riconoscimento legale in tal senso. Occorre infatti ricordare che, secondo i dati dell’Ilga Europe (associazione internazionale per i diritti LGBT presente all'ONU), l'Italia nel 2023 si situa al 34esimo posto su 49 nella classifica dei Paesi europei per politiche a tutela dei diritti umani e dell'uguaglianza delle persone lgbt+[5]. Diventa poi fondamentale in un Paese in cui durante la pandemia di Covid si parlava di “congiunti” e diviene un discorso necessario in tutte le nazioni in cui l’accesso alle visite in terapia intensiva, o in caso di emergenza, si limita solo ai famigliari riconosciuti legalmente. E se questo ancora non bastasse, diventa doppiamente un atto necessario in un’Italia in cui si procede alla cancellazione dei diritti civili e in cui il governo Meloni cancella gli atti di nascita dei bambini nati all’interno delle famiglie lgbt+. Testimoniare questo è quindi atto politico e atto etico-esistenziale, perché il benessere delle persone si misura anche dalla loro possibilità di dare liberamente alle proprie vite la forma che desiderano dargli, autodeterminandosi e perseguendo la propria felicità.


La forza di raccontare la propria malattia e il proprio accogliere la morte, pur amando così profondamente la vita, rientra forse nello stesso discorso. Anche in questo caso si tratta di un atto politico. Il lascito è enorme. Il dono di sé è difficile da esprimere a parole e la forza richiesta per farlo è forse anche difficile da comprendere per una persona che non possiede fede. Non so se il fatto che Murgia la fede l’avesse, l’abbia aiutata ad affrontare questo percorso e a raccontarlo con la serenità con cui ha saputo farlo. È qualcosa di estremamente intimo, privato, su cui non posso esprimermi. Ciò che so, però, è che quello che ha saputo fare, con una leggerezza incredibile – la leggerezza di Calvino, che l’ha contraddistinta in vita, come ha ricordato Lella Costa al funerale, e che non l’ha abbandonata fino all’ultimo – è stato dare a tutti uno strumento per raccontare, o forse addirittura per vivere, il dolore e la malattia da un’altra prospettiva, non quella della lotta, non quella della disperazione, ma quella del percorso di vita, dell’attraversamento, della coesistenza. Fino all’ultimo si è preoccupata di preparare gli altri alla sua morte, di non lasciargli la mano. Se questo non è un insegnamento di ciò che voglia dire “prendersi cura” dell’altro, non so cos’altro possa esserlo.


Il ruolo dell'intellettuale

Un altro motivo per cui Michela Murgia mancherà, terribilmente, è che ha saputo ricreare all’interno del dibattito pubblico uno spazio di critica, che negli anni Sessanta e Settanta era vivo ed era quello proprio agli intellettuali, che poi si era via via sempre più assottigliato, fino a scomparire. Ha creato spazi di dibattito pubblico, utilizzando anche e soprattutto internet per fare rete e usando i social network per rivolgersi direttamente alle persone, senza filtri, senza intermediari, così da raggiungerle direttamente, anche quando i media distorcevano il messaggio, estrapolavano parti del discorso, si focalizzavano su ciò che era superfluo e non fondante nelle sue parole. Ha saputo utilizzare i social network in modo intelligente, stabilendo un dialogo diretto con le persone e mantenendo vivo il dibattito sui temi per cui si batteva. Si è fatta pubblicamente portavoce di istanze critiche nei confronti del sistema, mettendoci la faccia, dunque mettendo in senso letterale e non solo figurato, il proprio corpo davanti al potere. Affrontando il potere. L’aveva fatto ai tempi del suo primo libro Il mondo deve sapere in cui aveva denunciato la situazione che si viveva all’interno del call center in cui lavorava e l’ha fatto poi anche dopo.


“Le profezie si fanno sul presente collegando i fatti” ha affermato in una circostanza, così come Pasolini nel suo celebre “Cos’è questo golpe? Io so”[6], aveva dichiarato che compito degli intellettuali è quello di “ seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace”, perché l’intellettuale è colui “che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.”


Collegare i punti, scorgere i legami tra gli eventi per leggere il proprio tempo. Michela Murgia questo l’ha fatto, in modo chirurgico, accurato. Ha osservato i fatti e poi ha unito i punti in un tracciato chiaro, denunciando il fascismo che non è un’ideologia, d’altronde non lo è mai stata, nemmeno ai tempi di Mussolini a cui interessava solo conquistare e detenere il potere, ma è un metodo per avere il controllo sulle vite degli altri, sui loro corpi, sui loro desideri, sulle loro storie. In sintesi, appunto, per avere ed esercitare il potere. Se dunque, come ha affermato Murgia, occorre guardare al fascismo come a un metodo, più che come a un’ideologia o a un’opinione, riconoscere questo fa la differenza, poiché permette di identificare un sistema, un modo di operare e di raggiungere un fine, che è palesemente quello che sta avvenendo ora in buona parte d’Europa e sicuramente in Italia. Il fascismo infatti, ha illustrato Murgia, si contrappone, per essenza, alla democrazia, che è plurale, inclusiva, fatta di confronto – e anche di conflitto - a differenza del primo. Se si pensa al fascismo come a un metodo, come a un modo per imporre omogeneità (un’unica Patria, un’unica religione, un’unica identità, un unico modello di famiglia) irrigidendo la vita in un tragico binomio di legittimo (naturale) e illegittimo (devianza), non è difficile rendersi conto che il tempo in cui viviamo è già profondamente intriso di fascismo. A livello europeo l’avanzata dell’estrema destra e la diffusione di questo metodo è preoccupante, mentre in Italia, quanto il governo Meloni sta facendo, risente già chiaramente di questo metodo, di questo sistema. Autoritarismo (es. la querela di Meloni contro Saviano), cancellazione dei diritti civili (es. il governo Meloni che cancella gli atti di nascita dei bambini nati all’interno delle famiglie lgbt+), limitazione degli spazi di dialogo e confronto (es. la cancellazione del programma di Saviano), criminalizzazione della migrazione e dei migranti, imposizione di un’unica identità (bianca, cristiana, italiana) e cancellazione delle altre, normalizzazione di espressioni xenofobe e fasciste, negazione o silenzio su quanto fatto negli anni dai gruppi neofascisti (vedi Strage alla stazione di Bologna).



Mancherà Michela Murgia a coordinare fatti anche lontani, a leggere e pensare la complessità, a mettere insieme quei pezzi “disorganizzati e frammentari” e a comunicare poi il quadro emerso in modo chiaro ma mai semplificato, appassionato, con quel suo linguaggio accurato, sciolto, coinvolgente, capace di rivolgersi non solo ad altri intellettuali ma a smuovere tutti, in modo trasversale. Perché la differenza rispetto ad altri, l’ha fatta anche il suo carisma, la sua capacità di coinvolgere, appassionare, mobilitare, creare comunità. Secondo Gramsci il compito dell’intellettuale è quello di farsi mediatore del sapere e delle teorizzazioni nei confronti del popolo. La capacità di Michela Murgia di semplificare senza mai banalizzare, riuscendo a catturare l’interesse di una moltitudine di persone, dimostra che Murgia è stata un’intellettuale, anche nel senso gramsciano del termine. La prova definitiva di ciò, per chi nutrisse dei dubbi - oltre alle 579 mila persone che la seguivano su Instagram, numeri impensabili per una scrittrice - è la grande partecipazione al suo funerale, con migliaia di persone ad aspettare il suo corpo fuori dalla chiesa, intonando “Bella ciao” tra unicorni, bandiere dell’ANPI, perfino la bandiera dell’orgoglio bisessuale, mentre dentro la chiesa si tenevano delle esequie cattoliche.


A prima vista sembrerebbe un casino, sembrerebbe strano, perché cosa hanno a che fare il cattolicesimo, i partigiani, gli unicorni e il movimento lgbt+? Niente a livello generale, verrebbe da dire, soprattutto se si pensa alle divergenze profonde tra le posizioni della chiesa cattolica e il movimento lgbt+, ma invece se si pensa a Michela Murgia tutto si tiene assieme, perché quando una persona è libera, ma libera davvero, si crea da sola il proprio immaginario, e tutto acquista una coerenza, una sua logica interna, logica che ha spiegato lei stessa nei suoi libri dedicati al rapporto tra cattolicesimo e femminismo (Ave Mary. E la chiesa inventò la donna, Einaudi, 2011) e al rapporto tra cattolicesimo e mondo queer (God save the queer. Un catechismo femminista, Einaudi, 2022). Rimane un casino agli occhi degli altri, e forse lo è se lo si guarda con gli occhi dell’ortodossia, con ideologie stantie, con preconcetti, con le caselline da crociare per rientrare nelle categorie volute da altri, ma visto da un’altra prospettiva non è altro che “un casino di bene”, come avrebbe detto e voluto Michela Murgia, mostrando che si può essere anche cattoliche e femministe, cattoliche e queer.


Quanti altri intellettuali in Italia, oggi, riescono a smuovere tutte quelle persone? Quanti con questa trasversalità? La risposta purtroppo è ovvia. Pochi. Forse nessun altro. Inutile ribadire che tutto questo mancherà.


Generare e abitare altri mondi è possibile

“Gli intellettuali che non sanno divertirsi non sono intellettuali” ha affermato Murgia in una bellissima intervista rilasciata a Chiara Valerio.


“Divertirsi, divergere, essere strabici”, dice. Coniugare cultura alta e bassa, scrivere dei BTS per parlare di fragilità emotiva[7], dialogare con l’esistente, guardare a tutto con la stessa curiosità, assorbendolo, rielaborandolo, riformulandolo. Un esempio di questa capacità di attingere anche alla cultura pop e di divertire, facendo al contempo riflettere, e mettendo in dialogo mondi anche lontani tra loro, è costituito dalla rubrica “Buon vicinato[8] realizzata dai salotti di casa con Chiara Valerio durante la pandemia COVID.


“Buon vicinato” mi ha intrattenuta, facendomi ridere mentre pensavo e facendomi pensare mentre ridevo. Questa rubrica mostra chiaramente come non esista niente di insignificante, perché anche ciò che sembra frivolo, superficiale, in realtà può dirci qualcosa sul nostro tempo e fa parte di una rete di significati più ampia. Mentre ascoltavo Murgia e Valerio dibattere, discutere in modo appassionato di Lady Oscar o di Morgana o ancora di vampiri o gentilezza, sempre partendo dal particolare per sviluppare poi, procedendo per analogie e contrasti, un discorso più ampio, un discorso di senso, ho pensato spesso che fossero fortunate ad essersi trovate, ad avere un’amicizia così forte, in grado di trapelare dallo schermo arrivando a migliaia di persone che tra loro non si conoscevano e in quel momento vivevano ciascuna reclusa nello spazio della sua abitazione. Non posso negare che quegli scambi dialettici mi abbiano fatto compagnia durante la reclusione del lockdown, che in Svizzera non è stato così duro e così privativo come in Italia, ma ha fatto comunque emergere la nostra fragilità, il bisogno profondo di condivisione che ci caratterizza come esseri umani. Non posso negare che aspettassi le loro dirette con impazienza e che non mi importasse nemmeno di sapere quale fosse il tema, perché ad interessarmi era quanto detto prima, ossia quella mescolanza di cultura alta e bassa, quella loro capacità di far emergere dall’ordinario, dal consueto, qualcosa che consueto non era: un legame tra le cose inaspettato, un’associazione di idee imprevista. Seguire “Buon vicinato” era poi sentirsi parte di una comunità creata dal nulla in un momento in cui essere comunità era difficile, se non quasi impossibile. Penso che di Murgia mancherà molto anche questo, la capacità di creare spazi di condivisione in cui veniva voglia di abitare.


Michela Murgia, d’altronde, di altri mondi ne ha abitati tanti. Oltre ad aver vissuto “dieci vite” e fatto cose che non sapeva “neanche di desiderare”[9], Murgia ha abitato il mondo di Lot[10], ha cantato in elfico che era – ed è ancora – una lingua viva finché ci sarà almeno una persona che la parlerà e deciderà di usarla. “Non è vero che il mondo è brutto; dipende da quale mondo ti fai”, diceva. Per farsi creatori di mondi – intesi come spazi altri, di lotta, di condivisione - ci vuole impegno, occorre avere la forza di conoscersi, poi la volontà di scegliere e infine la capacità di agire coerentemente con se stessi pensandosi anche in relazione agli altri.


Pensando a questo e a Murgia, mi viene in mente un pensiero di Toni Morrison:

“Dico ai miei studenti “Quando ottenete quei lavori per cui siete stati brillantemente formati, ricordatevi che il vostro vero lavoro è che se siete liberi, dovete liberare qualcun altro. Se avete un po’ di potere, allora il vostro compito è dare più potere a qualcun altro”.


Lo associo a Michela Murgia, perché lei, oltre ad essere stata lei stessa estremamente libera fino all’ultimo, si è impegnata ad usare la sua autorevolezza e la sua voce anche per allargare lo spazio degli altri, delle donne in primis, cercando di aumentarne le consapevolezze, la risonanza, la forza. Allo stesso modo anche il podcast Morgana, di Murgia e Chiara Tagliaferri, ha fatto questo. Ha raccontato le storie di donne che hanno allargato lo spazio di altre donne e al contempo ha contribuito, esso stesso, ad allargare questo spazio.

Fare rete, condividere, creare spazi, riconoscersi in genealogie e discendenze. Anche questo mancherà di Michela Murgia.


L'importanza di non stare zitte

Michela Murgia non è stata zitta, nonostante, come scritto in precedenza, i media e le testate giornalistiche abbiano provato a farla tacere attraverso i titoli delle loro prime pagine, attraverso twitter, attraverso insulti e campagne diffamatorie. Un amaro e parziale assaggio di quanto Murgia abbia dovuto affrontare, lo si può trovare nell'editoriale di Valeria Ricciardi apparso il 13 agosto su "Domani".

Come ha ricordato Roberto Saviano durante il suo discorso al funerale di Murgia: “Michela sceglieva, perché il silenzio di fronte all’orrore l’avrebbe resa infelice. Scegliere è l’unica cosa che la faceva sentire in asse con sé stessa. Contro di lei c’erano «il dossieraggio, la pressione mediatica, l'orrore dei populisti e non solo che si accanivano su di lei, Giornali infami, siti immondi con il compito, anzi il mandato di insinuare e ingannare.”[11]


Se parlare, esprimere il proprio pensiero, ha scatenato questi ripetuti attacchi mediatici, questa è la prova che Murgia aveva ragione quando scriveva che “di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la più sovversiva”[12].

In questo modo è diventata il bersaglio del potere e dei sostenitori del potere, bersaglio degli attacchi dei politici, bersaglio degli odiatori sui social network, bersaglio di alcune testate giornalistiche. Murgia di questo ne ha sofferto, l’ha confessato – oltre che nel bellissimo articolo “Cosa ho capito sulla fragilità con i BTS” - anche nell’intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo, in cui ha dichiarato “il vomito l’ho vissuto, ma legato alla mia ostensione pubblica, all’essere diventata un bersaglio. Era la reazione per l’odio che ho avvertito nei miei confronti. È cominciato quando ho visto per la prima volta il mio nome sui muri, quando mi hanno insultata in coda al supermercato. È finito quando ho capito che non dovevo lasciar entrare quell’odio dentro di me.”[13]


Nonostante la sofferenza provata, Michela Murgia ha avuto, però, anche la capacità di capovolgere le offese, di trasfigurarle attraverso l’ironia e la sua straordinaria intelligenza, facendone apparire tutta l’incongruenza, la sproporzione, come quando è apparso il titolo di Libero “Le oscene acrobazie sessuali di Michela Murgia con la lingua italiana”, e lei ne ha riso, riuscendo a vedere in quel titolo tutta l’incongruenza del nostro tempo e la paura che può incutere una semplice "e" rovesciata (lo schwa).

Nonostante fosse diventata un bersaglio, Murgia non si è mai tirata indietro, ma ha svolto un ruolo di denuncia che forse avrebbe potuto e dovuto essere svolto da forze politiche, ma che, in assenza di quelle, è stato svolto anche, e soprattutto, da lei in quanto intellettuale e militante. Alla domanda di Cazzullo “Come lo spiega, quell’odio?”, Murgia risponde infatti: «Prima dell’arrivo di Elly Schlein mi sono trovata, con pochi altri scrittori come Roberto Saviano, a supplire all’assenza della sinistra, a difendere i diritti e le libertà nel dibattito pubblico».


Murgia non ha poi smesso di parlare né dell'asimmetria di potere tra donne e uomini all'interno della società attuale né della spesso pessima narrazione e rappresentazione delle donne all'interno dei media. I segni di una società patriarcale, maschilista che, al contrario di ciò che sosterrebbero alcuni, non è ancora stata superata seppur ci siano stati miglioramenti nel tempo, erano stati messi in evidenza da Murgia anche sui social network, in particolare su Instagram, in cui la scrittrice aveva creato delle rassegne in cui venivano puntualmente riportati i titoli dei giornali e il modo in cui i media si esprimevano sulle donne. Attraverso questi, Murgia aveva evidenziato il fenomeno del “cuginismo” in cui le donne venivano sempre trattate come se fossero la cugina del giornalista, e chiamate solo per nome o secondo il loro ruolo sociale, spesso quella di “mamma” o di “moglie”. Allo stesso modo aveva evidenziato come le firme femminili nei giornali, così come la presenza delle donne nei ruoli di potere all'interno della società italiana, fossero ancora marginali:


“Su ispirazione di una serie di post acuti di Ritanna Armeni, da diversi giorni ho cominciato a studiare con cura le prime pagine dei due principali quotidiani italiani, la Repubblica e il Corriere della Sera. Niente che non possa fare chiunque: le fotografo, evidenzio le firme in calce a ogni articolo e poi le metto su Twitter perché salti immediatamente all’occhio il dato macroscopico dell’onnipresenza maschile: i pezzi sono quasi tutti scritti da uomini, con percentuali del 100% in quelli di opinionismo politico. Altrettanto costante è la natura del contenuto. Gli uomini in prima pagina occupano gli editoriali, cioè gli spazi della massima autorevolezza: esprimono pareri, leggono la complessità della situazione politica italiana e internazionale, fanno analisi e tengono rubriche di commento alla cronaca e al costume. Gli uomini sui giornali ci spiegano la realtà. Le pochissime giornaliste la cui firma viene richiamata in prima pagina fanno invece interviste (in prevalenza a uomini che ci spiegheranno la realtà ancora meglio) o articoli su temi riconducibili a questioni percepite come femminili, confermando l'idea che le donne siano esperte soprattutto di donnismo.

Per amor di verità va detto che i numeri dei due quotidiani non sono proprio identici: se leggendo la prima pagina del Corriere si potrebbe pensare che un misterioso virus abbia sterminato tutte le giornaliste della redazione, di quando in quando quella di Repubblica manifesta anche segni di vita femminile intelligente. Il quadro che però sta venendo fuori è in generale desolante: sui mezzi di informazione il pensiero complesso delle donne ha pochissima o nessuna rappresentazione. L’impressione che si ha osservando questi due quotidiani è che le donne non abbiano alcuna autorevolezza nello spiegare la complessità del nostro tempo e che per questo il posto della saggezza debba essere sempre occupato da un uomo. È lui il savio, l’esperto, il fine analista, l’acuto chiosatore del presente. Lei invece regge il microfono al parere altrui, raccoglie le informazioni e le organizza in modo funzionale, ma mai offre chiavi di lettura in prima persona e mai esprime un suo parere che possa orientare l’opinione di chi legge. Ora, è pur vero che i giornali vendono così poco che far dipendere da loro l’orientamento dell’opinione pubblica è ormai quantomeno irrealistico, ma restano spazi simbolici significativi e infatti sul fronte del sessismo riproducono le stesse dinamiche degli altri mezzi di informazione italiani: le prime pagine tutte al maschile rispecchiano la composizione dei talk show politici e delle tavole rotonde con soli uomini, per tacere delle testosteroniche dirigenze politiche. Nessuno di questi luoghi sociali restituisce la realtà di un paese dove le donne sono la metà della cittadinanza, mediamente sono più colte e certamente non sono meno competenti dei loro colleghi nel poter spiegare il presente. Farlo notare non è una battaglia contro i giornali, ma contro la miopia maschilista - nei giornali come ovunque - che continua ad agire come se le donne non esistessero, se non ai margini. Farlo notare non è una battaglia contro i giornali, ma contro la miopia maschilista - nei giornali come ovunque - che continua ad agire come se le donne non esistessero, se non ai margini.”[14]


Oggi Michela Murgia non c’è più, ma ci ha lasciato degli strumenti per leggere questa nostra complessa umanità e il nostro tempo. Ci ha lasciato l’attenzione verso le parole, un alfabeto per dire ciò che significa essere femministe oggi, ci ha trasmesso un metodo per identificare comportamenti antidemocratici, ci ha regalato un esempio concreto di cosa voglia dire essere un’intellettuale – anche del peso che questo implica – e di cosa comporti tentare di essere liberi e della responsabilità, quando si ha un po' di libertà, di provare ad ampliare anche lo spazio di libertà delle altre persone. Ci ha inoltre insegnato - e lo ripeteva spesso - che a volte è necessario ribadire anche ciò che pare ovvio, ancora e ancora, e che "non esistono diritti acquisiti, esistono quelli che siamo in grado di difendere”.

E poi, e poi ci sono le storie che ha narrato in cui è presente la sua visione del mondo, ma in cui c’è spazio – ed è il lato meraviglioso della letteratura – anche per lo sguardo del lettore, che attraverso la sua esperienza può continuare a costruire su quelle pagine altre storie, a moltiplicare i discorsi e il senso, a piantare nuovi e vecchi semi nell’immaginario, rendendo di fatto la lettura un percorso senza termine, un dialogo ininterrotto.


__________________________ [1] https://www.youtube.com/watch?v=x4-dFYdtQIY [2] https://www.vanityfair.it/article/michela-murgia-non-ce-un-solo-modo-di-volerci-bene [3] https://www.vanityfair.it/article/michela-murgia-non-ce-un-solo-modo-di-volerci-bene [4] Michela Murgia, Accabadora, Einaudi, 2009 [5] https://www.agi.it/cronaca/news/2023-05-17/omofobia_21mila_chiamate_a_numero_verde_gay-21423446/ [6] https://www.corriere.it/speciali/pasolini/ioso.html [7] https://www.ilpost.it/2021/11/05/michela-murgia-bts-taehyung/ [8] https://youtube.com/playlist?list=PL4Q9z1A_xaTKaPcyNBjEacqH0WuCik5Ty [9] https://www.corriere.it/cronache/23_maggio_06/michela-murgia-intervista-613411b8-eb75-11ed-b6da-0a1fd7305281.shtml [10] https://www.ilfattoquotidiano.it/2011/10/24/giocando-su-internet-sono-diventata-scrittrice/166019/ [11] https://www.editorialedomani.it/fatti/i-funerali-politici-di-michela-murgia-saviano-il-silenzio-di-fronte-allorrore-lavrebbe-resa-infelice-vsy1vb6g [12] Michela Murgia, Stai zitta, Super ET Opera viva, 2021 [13] https://www.corriere.it/cronache/23_maggio_06/michela-murgia-intervista-613411b8-eb75-11ed-b6da-0a1fd7305281.shtml [14]https://www.facebook.com/kelledda/posts/pfbid02sH7QLXKQX7yHJBJFJzyHHEqD9GG5vQw3bP2ZY5fokUbF62tXAxiQRg9TzKvEncthl?ref=embed_post



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