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"Ottavia e la scatola di carbone bianco" di Mattia Alari



Se n’è andata. Con quel cagnaccio bastardo che le girava sempre tra i piedi e con il suo gatto dal pelo a toppe. Ha portato con sé solo la scatola del nonno e la vecchia bicicletta che aveva sulla canna l'anno in cui venne costruita: 1945. Ottavia è sparita su una vecchia bicicletta dalla canna blu che sembrava uscita da un film in bianco e nero, e proprio come alla fine di un vecchio film.

Forse di sera. Ma qualcuno disse di aver avuto da lei la buona notte. Allora di mattina. Ma la terra morbida dei campi della notte avrebbe dovuto conservare le sue tracce. Invece fu trovata intatta. Come la sua stanza. Non aveva mosso neanche un granello di polvere che, come neve microscopica, continuava a cadere nello stesso modo, illuminata dal cannolo di luce della finestra del tetto.

L'unica cosa che sembrò essere cambiata fu la camera stessa. Agli occhi di tutti apparve come un deposito, un ammasso di oggetti senza senso, buttati lì e basta. Non era più una stanza da letto e da gioco, lei non c'era più. E nonostante tutto, parve quasi naturale.

Ottavia era venuta all'improvviso come una tempesta di Maggio che crivella tutti i fiori dei giardini. Dissero di lei tante cose, ma nessuna era vera. Molto si seppe dopo. Filippo era un nonno senza figli e quindi senza nipoti. La zia Gina era una signora che lui aveva conosciuto negli ultimi tempi e che gli faceva compagnia. Lavorava come cameriera in una casa di città. Si era sempre vergognata del suo accento e di non capire tutto quello che le veniva detto in una lingua più decente, ma lui la comprendeva e questo bastava ad entrambi.

Si svegliarono una mattina e trovarono in cucina Ottavia, con il suo tazzone di latte con il cioccolato davanti, che chiedeva altri biscotti. Il nonno aprì la credenza e le porse una grande boccia di vetro che conteneva dei frollini. Le raccomandò di non mangiarne troppi e poi di andare al piano di sopra dove avrebbero rifatto il suo letto insieme. Fu tutto di una naturalezza estrema, la stessa che ebbe la zia Gina nel sorriderle e andare a preparare il caffè. Quella mattina Ottavia doveva avere già sette anni. Quando lasciò tutti ne aveva almeno tredici.

Fece una serie di cose strane.

A nove anni, dopo aver ridotto in pezzi una quantità impressionante di fogli bianchi (di cui nessuno mai seppe la provenienza) simulò una nevicata sugli alberi del giardino. Il nonno vedendoli cadere dal tetto uscì, e il cane della bambina gli venne incontro con in bocca due pezzetti di carta. Su uno c'era scritto "nevica" sull'altro solo "nero".

Poi la neve cadde davvero, un po’ prima del solito e mischiata alla sabbia di un lontano deserto, sembrava fatta di sangue. La zia Gina pensò che fosse davvero un brutto miracolo e si ricordò di non essere andata a messa due domeniche. Pensò allora che il Signore voleva dirle che così si stava dannando. Molti, dandosi la stessa importanza, pensarono anche la stessa cosa. E così la domenica si ritrovarono tutti stipati nella piccola chiesa a guardarsi con la faccia stupita di fronte a don Silvano, più sorpreso di loro (quanti parrocchiani non conosceva!) che così fu costretto a dire la messa in piazza. Il pieno durò solo tre settimane e poi, alla prima nevicata bianca, don Silvano si dovette definitivamente rassegnare alla solita chiesa troppo grande e alle solite due vecchiette addormentate e con i calli sulle ginocchia.

E mentre succedeva questo, Ottavia continuava a giocare spensierata nella piccola stanza della mansarda.

Passava lì moltissimo tempo. L'apertura più grande della camera era la finestra del tetto, troppo ridotta rispetto a ciò che sarebbe potuta essere e che concentrava la maggior parte della luce in un punto, come un faro di scena, così che c'era un forte contrasto fra l'ombra di tutta la stanza e dove la luce cadeva. Ottavia aveva studiato che sulla luna la linea che separa la parte illuminata da quella nera era altrettanto netta, così che, volendo, si poteva tenere metà mano alla luce e l'altra metà al buio.

Alcune volte, di notte, la luna gonfia e nuda nel cielo illuminava la sua stanza come un cero, centrando con la sua luce la finestra, e Ottavia sulla sedia a dondolo, vedendola entrare, la guardava rannicchiata nella copertina di culla che avevano regalato alla zia, e piano le chiedeva: “Che c’è? Che c'è?”. Filippo lo sapeva perché spesso rimaneva a spiarla fin quando non si addormentava, sempre fuori dal letto. E più di una volta gli sembrò che lo chiedesse anche a lui.

Ma non la disturbava mai. Neanche quando la trovava stesa a terra sotto il fascio di luce, rimasta lì dopo che la luna s'era spostata ed era andata oltre.

Ottavia cresceva in modo strano.

Per anni poteva restare sempre la stessa e poi all'improvviso si trasformava, come se avesse lasciato scorrere il tempo su di sé tutto in una volta e in fretta. La zia Gina sosteneva che non le crescessero i capelli che aveva sempre tenuto lunghi fin quasi alle spalle, in un liscio caschetto con la frangia.

Era bella Ottavia, con il viso bianco e i capelli nerissimi, con i suoi occhi grandi e allungati. - Molto più viola di quelli di Liz Taylor! - diceva il nonno.

Era una bambina che si faceva volere bene. Come il suo cane e il suo gatto.

Il cane l'aveva chiamato Novecento, come un film che piaceva tanto al nonno. Era un meticcio enorme che come unico difetto aveva il vizio di scavare negli orti dei vicini. Amava l'uva e più volte rischiò di finire impallinato. Il gatto lo portò a casa proprio lui. Lo aveva in bocca, era piccolissimo e tranquillo. Lo depose in grembo a Ottavia che, seduta accanto alla zia, stava guardando la televisione. Faceva odore di frutta fermentata. Appena il nonno tornato a casa lo vide, le disse che poteva tenerlo.

- Questo deve essere periodo di gattini. Si allontanano troppo dalla mamma e poi finiscono male. Proprio adesso, passando con la bici, ne ho visto uno schiacciato da un'automobile. Ho pensato che avrei voluto trovarlo prima che l'avessero ammazzato, per portartelo - lei lo guardò sorridendo.

- Eccolo! - gli disse. Lo chiamò Sidro.

Con il cane, il gatto e qualche amica, Ottavia andava a giocare, quando il tempo lo permetteva, nei campi vicino casa.

Mentre quelle correvano, tra l'erba alta lei pareva nuotare in un acquario di luci e colori. In autunno si meravigliava del puntuale cadere delle foglie e di quanto, morte, riuscissero a stare attaccate ai rami. In quel periodo tutto diveniva di un insostenibile color oro fisso e la luce sembrava più spessa, fatta come di mattoni, così come il silenzio, turbato solo dal vento che fischiava tra una fessura e l'altra di quei mattoni. Proprio durante una di queste passeggiate, Ottavia trovò quelle strane pietre, questo le sembrarono in un primo momento, che portò a casa. Le mostrò alla zia che non seppe cosa dirle. - Se non vedessi che è bianco penserei che è carbone - parole senza senso pensò Gina, dispiaciuta per non aver saputo far meglio. Ma si dovette ricredere.

- E' proprio carbone - disse il nonno quando gli fu mostrato quello che Ottavia aveva portato e nella sua voce non c'era un'ombra di meraviglia.

- Ma il carbone è nero! - disse lei che di colpo gli sembrò ragazzina. Lui la guardò serio, anche se stava per scoppiare dal ridere.

- Guarda che è nero solo il carbone della Terra - e osservò l'espressione poco convinta di Ottavia - tu hai trovato quello che avrei dovuto trovare da piccolo: Il carbone della luna. Secondo te, di che cosa è fatta la luna?

- Prima credevo che fosse fatta di pomice, che tu mi hai mostrato quando siamo andati al mare…

- Infatti è di una pomice specialissima! Leggera e sottile tanto da poter galleggiare in cielo… - Ottavia sorrise.

- Nonno, dai… !A scuola mi hanno spiegato da un pezzo che cos'è la luna. E non è di pomice o di carbone.

- Ah! - esclamò il nonno.

- Ma sarebbe stata una bella favola, nonno - disse Ottavia troppo grande per le favole.

- Già. Ma ho deciso di raccontartela troppo tardi – disse tristemente.

La zia Gina che era lì vicino indicò quello che il vecchio Filippo aveva nelle mani.

- Allora che è? - Lui la guardò sconfortato.

- Solo carbone bianco - disse e Ottavia non parve cogliere l'amarezza che gli increspò la voce anche se lo guardò dispiaciuta - toh, prendi! Raccogli tutti i pezzi e mettili in qualcosa che puoi portarti via.

- Dove? - e sembrò che conoscesse la risposta.

- In camera - disse lui - non vorrei che si trovassero in giro, anche se di solito non succede. In cucina c'è una scatola di cartone colorato, sul tavolo. Prendila e conservali là - detto questo non si parlò più di quel carbone per tutta la giornata, che trascorse come al solito. Il pomeriggio il nonno seduto sul dondolo finì il libro che aveva preso in mano tre giorni prima, e Gina cucinò il suo piatto preferito perché voleva tirarlo un po’ su, le sembrava troppo pensieroso. Ottavia trascorse tutto il tempo sul tetto.

Se qualcuno durante quelle ore passò da quelle parti, si chiese certamente perché fosse salita là sopra. Per altro sembrava che questo dispiacesse anche a Novecento, forse anche invidioso di Sidro che l'aveva raggiunta, che mentre la guardava da là sotto, con il naso all'insù, abbaiava come un disperato. Ottavia scese dal tetto solo quando la chiamarono per andare a tavola.

Il sole era tramontato da un po’ e l'aria conservava ancora qualche ombra colorata. La zia, prima di chiamarla per entrare, le chiese dalla cucina come fosse il cielo. E forse lei rispose che ci sarebbe stato cattivo tempo, visto il tramonto bianco. Ma con tutto il rumore che facevano la cappa e le pentole sul fuoco, la zia non sentì la sua voce e nessuna parola. Almeno i suoi sforzi furono ricompensati e Filippo e Ottavia onorarono la cena con il bis.

La zia Gina disse poi che quella sera avevano parlato insieme delle solite cose, e che si erano divertiti, in particolar modo durante la prova del vestito che lei aveva cucito a Ottavia e che misteriosamente le andava già stretto.

- Non sai più prendere le misure! – aveva detto Filippo ridendo, mentre Ottavia cercava di chiudere l'abito sul davanti.

Lei si era un po’ offesa ma solo al solito, visto che loro la punzecchiavano sempre. Andarono poi a dormire ma tardi. Più tardi del solito. Prima di salire nella sua stanza, Ottavia aveva salutato entrambi, come faceva ogni sera.

- Dormi bene e fai bei sogni - le aveva detto la zia.

- Buona notte – aveva detto Filippo - e...Bada alla scatola - aggiunse strizzandole l'occhio ridendo e questo mentre lei si era ancora domandata cosa mai fosse, quel carbone bianco.

La notte poi era piovuto e abbastanza da infangare le strade. Ma era la stagione delle piogge improvvise e nessuno trovò strana la mattina che ne seguì.

Solo che quella mattina qualcuno non si alzò dal letto.

La zia trovò Filippo, che le sembrò molto più vecchio di quando s'era coricato, avvolto nelle coperte un po’ più pesanti che si era messo addosso per la notte. Era morto nel sonno, russando come al solito. Senza dire frasi memorabili che rimangono scolpite nel cuore di chi le sente e purtroppo più a lungo sulla lapide della tomba. Se n'era andato e basta. Come Ottavia.

La cercarono ovunque ma lei non c'era più.

La bicicletta che il vecchio Filippo legava alla porta con la catena, era sparita. Nella soffitta che forse (vennero i dubbi) era stata la stanza di Ottavia, ne trovarono una scheletrita e ormai inservibile. Sulla canna, che doveva essere stata blu, erano ancora leggibili quattro numeri: UNO, NOVE, QUATTRO, CINQUE. 1945. Qualcuno si impressionò. Tutti cercarono Ottavia per molto tempo. C'è lì chi lo fa ancora, vicino alla sua casa soprattutto, come se non fosse andata via davvero e così lontano.

L'altro giorno due ragazzi, seduti su un muretto, ascoltavano nelle foglie scosse dal vento le onde di un mare lontano chilometri. La conoscevano entrambi ed era ormai tanto tempo fa.

- Certe volte penso che lei non sia mai esistita – ha detto uno di loro guardando l'orizzonte e la sua voce si è confusa nel fruscio dei rami smossi.

- Non farlo – ha detto l’altro dopo un momento - facciamo finta di sì.

Perché c'è ancora chi crede a Ottavia.

 

Mattia Alari è nato al Sud ma si considera figlio adottivo delle Marche. Ha sempre scritto poesia, anche sperimentale, e ha adattato e scritto dei testi per una piccola compagnia teatrale.

Interessato allo studio della sceneggiatura, solo di recente ha pensato di condividere le sue storie. I suoi racconti sono stati pubblicati da "R.O.A Rivista On Line d'Avanguardia" e prossimamente da "Bomarscè" e "Malgrado le Mosche".

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