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"L'altra faccia della medaglia" di Debora Giampani

Aggiornamento: 15 ott 2020



Si fermò davanti alla spiaggia contorcendosi le mani per lo stupore. Non l’aveva mai vista così. Deserta, le grosse cacche bianche dei gabbiani rilucevano come monete abbandonate al sole, gli uccelli si riposavano con la testa ritirata nelle spalle.

Cassia prese la medaglietta dalla tasca e la strofinò sul palmo della mano. Decise che era il momento. S’incamminò sui sassi che scricchiolavano sotto i piedi, i gabbiani si alzarono in volo attorno a lei. Sull’orizzonte, nuvole minacciose si muovevano come giganteschi cavalli da corsa.

Si sedette a riva, il vento le infilava i capelli in bocca. Con quel tempo nemmeno la polizia si era disturbata ad uscire. Di solito gli agenti si appostavano lungo la strada. “Perché siete in due in macchina?”, “Dove risiede?”. In quella terra dove ognuno normalmente faceva quel che gli pareva, oggi c’era bisogno di un’autocertificazione per uscire di casa. E ciò che l’aveva più sorpresa, era che le regole venivano rispettate. Guai a trasgredire. Folle inferocite pronte a scagliartisi addosso. Nel male comune, era il livore a resistere con maggiore tenacia. Il destino peggiore capitava a chi non percepiva quella croce come tale. A chi coglieva l’occasione per sistemare allegramente il giardino, per sorridere alle rondini e urlare al vicino che la primavera è bella. Per loro non c’era nessuna compassione. E dire che fino all’altro giorno eri considerato un fallito se ti azzardavi a osservare che la vita non sempre è bella, che non sempre si ha quel che si vuole…

Prese una pietra grigia e la immerse in acqua. Fiumi d’argento si aprirono la strada in mezzo a catene montuose nere e lucenti. Le piaceva quel gioco, le ricordava quanto le cose possano trasformarsi tra le mani. Del resto lo sapeva bene, lei, che con le sue mani aveva fatto succedere l’impossibile. Erano gli altri, a non capirlo. Quelli che non notavano la differenza tra una pietra bagnata ed una asciutta, quelli che ora, rintanati in casa, si ostinavano a considerarsi le vittime predilette di un destino malevolo.

Estrasse nuovamente la medaglietta dalla tasca. Il regalo per il suo primo miracolo. Aveva guarito la nipote di suo marito da una brutta polmonite. Aveva tre anni, i medici l’avevano data per spacciata. I genitori le avevano fatto quel dono pur non possedendo praticamente nient’altro, e lei aveva accettato perché non voleva offenderne la dignità. Com’era ingenua. Nelle settimane successive avevano cominciato a fermarla per strada, a trattenerla per una manica al mercato. Erano spuntate le sue foto tra i vicoli con i fiori a incorniciarle il volto, un po’ come se fosse già morta. “Comu facisti?”: suo marito gliel’aveva chiesto centinaia di volte, e quando lei non rispondeva lui usciva di casa per fumarsi una sigaretta e rincasava l’indomani.

Prese la medaglia e la lanciò in acqua, più lontano possibile. Fissò a lungo il punto in cui il mare l’aveva inghiottita, con la speranza e il timore di vederla ricomparire tra le onde. Ma non ritornò.

Si ricordò della ragazza portata a riva senza sensi dal fidanzato. Lui che le praticava la respirazione artificiale senza successo. Cassia si era avvicinata e le aveva messo una mano sulla pancia. Poco dopo, la donna aveva cominciato a vomitare acqua salata ed era tornata a casa in braccio al ragazzo con le lacrime agli occhi. Quella stessa sera, mentre passeggiava lungo la spiaggia godendosi la sabbia tiepida che si insinuava tra le dita dei piedi, Cassia era stata fermata da un gruppo di uomini che l’aveva riempita di botte all’urlo Fattucchiera!

No, non doveva rimpiangere quel dono. “È come camminare all’inferno con una manciata di caramelle in tasca”, sussurrò tra sé. Aveva detto quella frase alla giornalista che l’aveva aiutata a trovare suo marito quando finalmente si era deciso a fuggire di casa. Ancora non sapeva che la gentilezza della giornalista aveva un caro prezzo: divulgare al mondo le sue capacità di guaritrice. Dopo che il servizio era uscito su Elle, per Cassia non c’era stata altra scelta che fuggire a sua volta. Venivano a cercarla giorno e notte, chi per pregarla in ginocchio e chi per sputarle in faccia. Aveva preso suo figlio e si era trasferita in un paesello costiero dove nessuno la conosceva né aveva mai letto Elle. Senza un marito e senza soldi, aveva ricominciato da zero. E per un po’ era stata felice. Ma poi... Come poteva permettere che il bimbo della sarta morisse di pertosse? Che Manlio il pescatore perdesse la vista?

Ora era diverso. Erano tutti rappresi nel loro grumolo di rabbia. Se il contagio si espandeva, la colpa era di quello che correva nel nulla, o di quel padre che aveva portato il figlio disabile in spiaggia. Non poteva più guarire nessuno, aveva troppa nausea. Serrò la mascella e si avviò.

Improvvisamente, il vento si ridusse a una brezza che fece risuonare il bambù sul limitare della spiaggia. Cassia si fermò ad ascoltare. Il mare ruggiva come un vecchio che racconta la sua storia enfatizzando alcuni episodi. Quando si quietava, restava il frusciare delle foglie sugli alberi, quelle canne spilungone che si inchinavano flautando all’unisono. E mentre osservava l’intrecciarsi fitto dei giunchi, i suoi occhi si impiantarono in quelli di un uomo. Il sangue le si raggelò nelle vene. Occhi neri come petrolio, brillanti nel bagliore azzurro del mare.

“È una luce magica” disse quello alzando lo sguardo. Cassia non riuscì a rispondere. L’uomo si voltò e richiamò un grosso cane giallastro. Solo allora Cassia notò il fornellino a terra, il rifugio ricavato da un telo da giardinaggio steso tra due cassonetti. Guardò meglio l’uomo che si allontanava. I jeans sgualciti, le ciabatte di gomma, la pelle scura. E mentre osservava, il sole si aprì un varco tra le nubi livide e andò a illuminargli la schiena. La sua giacca beige che procedeva tra le pietre blu riluceva come un tesoro sommerso.

Avrebbe voluto urlargli un saluto, scusarsi per la sua maleducazione – ma ormai era troppo lontano.

Chiuse il pugno nella tasca. Quello che stringeva era soltanto un sasso.

 

Debora Giampani nasce a Lugano nel 1986. Si appassiona alla letteratura a nove anni con Tarzan delle scimmie, ma più in là scopre che sono soprattutto due i generi di storia che la affascinano: quelle normalissime o quelle surreali. È laureata in Lettere con una tesi sulle illusioni leopardiane nel Novecento. Ha lavorato come giornalista per diverse testate ticinesi ed è collaboratrice di Rete Due. Da qualche tempo ha scoperto che sott’acqua si pensa meglio e nel 2017 si è trasferita in Sicilia dove ha aperto un diving assieme al suo compagno.

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