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"Il rito e la caduta" di Andrea Galli



Sei tornato alfine Venerdì Sera, preclara, possente divinità sgravante gl’omeri divini e mortali del carcame settimanale!

Siffatte le cogitazioni che s’affastellavano tra le anelanti di riposo meningi di Vitti (all’anagrafe Vittorio Maria Colombo, di Sergio Maria, costruttore edile, e Bini Clotilde, profumiera) mentre, le lunghe dita curate e lisce, scevre di calli o piaghe, amari emblemi del lavoro dei bruti, ravvivavano i biondi capegli. Un ultimo controllo: camicia e giacca inappuntabili in termini di qualità sartoriale e di abbinamento cromatico, altro che Caravaggio genio della luce!, calzoni antiallagamento stretti stretti con riga tirata col filo a piombo (strumento del qual vantava natural dimestichezza esercitando ei la professione di geométra per la ditta di recente rinominata Colombo Sergio e

figlio, prima solo Colombo Sergio), scarpe da ginnastica, per creare stucchevole contrasto, così all’ultimo grido da esser pervenute all’afonia.

“Oh, io sono pronto, e te? M*** se no arriviamo giù sempre in ritardo!” esclamò il geometra (da oltre una decade laureando in ingegneria) manifestando alla sua amata metà la necessità di accelerare le pur necessarie operazioni di trucco e parrucco, svuotamento di vescica, ritocco al succitato trucco, eventuale cambio d’abito dell’ultimo momento, selezione della fragrance più idonea al kairos e qui ci arrestiamo per motivi di spazio, nonostante la passione per l’accumulo verbale.

La giovane Afrodite, la voce altitonante e cristallina, rispose che a breve la preparazione sarebbe stata conclusa, giusto giusto una sistematina al peplo, e sarebbe stato possibile intraprendere il viaggio verso la desiata destinazione: il bar Macchi, eletta sede dell’ineluttabile, rituale aperitivo del venerdì.

Il disco del sole principiava la sua discesa, con maestosa lentezza, dietro la vetta del Sacro Monte, imperioso monumento dell’arte dell’uomo e della natura, allorché la coppia, il Vitti e la Gio, eminenti tra i giovani varesini, di rara bellezza amendue e ricchi e invidiati, venerati come divinità in tutti i circoli golfistici e tennistici tra Varese e Gallarate, abbandonarono il loro lotf. Dopo breve cavalcata a bordo della confortevole quadriga anglo-tedesca, raggiunsero, sani e salvi, l’agognata meta.


Il Chicco e la Sere li attendevano nel giardinetto antistante l’ingresso del Caffè Macchi dal 1951. La Gio, al cui sguardo censore nulla sfuggiva, sussurrò al suo amato: “Ma ha preso la scossa?” indicando, con guizzo delle mobili pupille, l’acconciatura della Sere, da tre lustri la sua migliore amica. Il Vitti rispose che, foss’anche stata fresca di parrucchiera, la situazione non sarebbe migliorata di molto e che con indosso quella giacca “che sarà uscita tipo almeno tipo tre anni fa” gli ricordava un pezzo da museo.

“Ma quanto sei bella?” cinguettò la Gio, abbracciando e baciando con schiocco l’amica di sempre.

“Lasciamo stare va: quando sono tornata a casa dal lavoro (assistente alla poltrona part-time presso lo studio dentistico dello zio Gianni) non ho avuto neanche il tempo di sistemarmi decentemente. Fai te che ho dovuto portare la Ketty (“vergine cuccia delle Grazie alunna”) al parco per fare i bisogni e rispondere a 321 messaggi non letti di tutta la giornata! Quando ho finito erano già le sei!”

Finalmente, dopo i convenevoli poterono accedere al tempio e mettersi comodi sui pulvinari, ognuno emettendo un “oooh” che tradiva l’impellenza del riposo, la voglia, il desiderio, la brama di svago, di abbandono, d’aria fresca dopo una settimana di erculee fatiche.

“Il solito, grazie” ordinò il Vitti a nome di tutti allorché il cameriere si fu presentato al tavolo.


Il servizievole valletto fu tosto di ritorno recando sul vassoio quattro calici traboccanti l’ambrosia delle divinità del nuovo millennio: Negroni. Gloria a te, conte Camillo Negroni, paladino del gusto e del piacere!

“A voi, signori”, disse l’ossequiente Ganimede posando sul tavolino le coppe, a partire dalle muliebri, ed innumeri cornucopie di focaccine farcite, brioches salate, pizzette adorne di morbidi carciofini, variopinte crudités, patatine rustiche, fettine di pane da accompagnare ad amabili norcinerie.

“Potrei avere delle olive?” domandò risentita la Sere.

Ganimede partì filato verso le cucine dell’Olimpo, le guance imporporate, per rimediare al fallo, a siffatto imperdonabile affronto.

“Una volta ti davano anche le patine col formaggio che a me mi piacciono un botto” osservò tra l’afflitto e lo spazientito il Vitti, laudator temporis acti.

Il silenzio dei tre compagni valse più di ogni commento.

“Ecco qui, ho portato anche delle cipolline. Salute signori!”

“Mo’ ci siamo “, gioì Sere.


Tutto era pronto: i quattro amici poterono finalmente afferrare i rossi bicchieri e brindare, brindare, brindare, far risonare le coppe alla libertà del week end, libare al Venerdì.

Sorbito simultaneamente il primo sorso, il Vitti, con estrema naturalezza e indefesso tempismo, estrasse di tasca lo smartphone e, quando tutti ebbero preso posizione affianco a lui, atteggiati i volti onde convivialità e ludibrio fossero ben percepibili ai futuri osservatori, eternò con un click quell’aperitivo e lo condivise immantinente ai suoi non numerabili secutori.

“Alla faccia del Marioni che è a Parigi con la tipa nuova!” chiosò il Chicco.

“Che è pure racchia!” completò la sua eccellente metà.


Come richiede il moderno Galateo, non corse guari spazio che la Gio, la Sere e il Chicco

sfoderarono anch’essi i rispettivi cellulari: era tempo di dare avvio alla farandola dei video, delle app e delle foto. Cosa, ditemi, cosa giova di più, cosa ristora lo spirito di quattro giovani rampanti, brillanti, cinque giorni a settimana faticanti più di una raffica di video? Da una parte Vitti e Chicco: viriliter, si dedicarono dapprima a recensire i bolidi emessi di recente sul mercato (“F*** questa la faccio comprare a mio padre, poi me la faccio prestare! Tanto per lui ottantamila sono un c***!” esclamò Vitti in preda ad un eroico furore automobilistico), poi si rifecero gli occhi con una galleria delle più avvenenti tra le starlette dei social, quindi appagarono il loro desiderio di leggerezza

(“Desiderio di cose leggere/nel cuore che pesa” scrisse una poetessa, forse pensando a questi giovani d’Olimpo) con scivoloni domestici di anziani, scivoloni di bambini al parco, scivoloni di obesi tedeschi in costume da bagno, goliardiche imprese da milioni di visualizzazioni (unità di misura della virtù secondo il più recente aggiornamento del Sistema internazionale delle unità di misura) quali quella di un uzbeko che ha ingerito sei chili di salsicce in tre minuti o un tizio di nazionalità ignota che ha fumato un intero pacchetto di sigarette col naso prima di fare un colpo apoplettico.

Se anche il Creatore si è preso un giorno di pausa è perché quando ce vo’ ce vo’.

Le due dame preferirono lasciarsi trasportare del fiume dei tutorial di make-up, discorrere della scandalosa eliminazione di Emma Calanchi dalla semifinale di A voice from the soul (“una voce pazzesca” sentenziò indignata la melomane Gio) e lasciarsi molcere il cuore dai teneri gattini che affollano la rete.

L’ostensione dei video proseguì per circa mezz’ora e produsse crampi mascellari dolorosamente piacevoli nei volti di tutte e quattro i ragazzi.

“M*** certe cose ti piegano troppo in due” sentenziò il Chicco, chiudendo la dilettevole parata.


Un giudice malevolo avrebbe potuto pensare che la discussione languisse per mancanza

d’argomenti, ma il conoscitore del bel mondo sa che tra i più eletti giovani d’oggi basta uno sguardo per comprendersi e poche sillabe per compendiare un intero poema. Non appartenendo noi all’asletto cerchio delle nostre salottiere divinità e potendo non di conseguenza abbeverarci dei loro superni pensieri, non abbiamo modo, ahinoi!, di dare trascrizione delle loro verba.

Al tocco delle diciannove, l’incombere della cena e del dopo cena diedero (scarso) impulso organizzativo alle menti e alle corde vocali dei ragazzi.

“Oh, stase?” domandò indolente il Chicco.

“Noi andiamo al Golf che c’è la festa di uno. Voi?” spiegò il Vitti.

“Milano, pensavamo. Al Superstar suona Mike Mike!” intervenne la Sere.

“M*** ci volevamo andare anche noi, ma questo qua della festa è tipo uno che ogni tanto lavora con noi, tipo che suo padre è ‘na vita che lavora con mio padre e allora…”

“Allora stiamo là fino a ‘na certa ora poi tipo andiamo anche noi al Super, no?” domandò la Gio, con intonazione che non ammetteva rifiuto. Mike Mike era il più grande DJ del momento e pareva avere una relazione con Jennifer Beati, l’ereditiera più famosa d’Italia nonché influencer tra le più seguite worldwide nonché sopravvissuta a sei overdose nonché tatuata sul novantacinque percento del corpo: non si sarebbe persa il suo DJ set per nulla al mondo.

“Boh, vediamo, dipende chi c’è al Golf. Te l’ho già detto, ci sono Il Pierca e il Jack che sono troppo forti. Poi c’è l’open bar e se bevono ti fanno pisciare…” replicò il Vitti dondolandosi come suo vezzo sulla sedia e proseguendo nell’enumerazione delle singolari, quasi ineffabili qualità dei selezionatissimi ospiti della serata, rampolli delle più celebri famiglie varesine, figli di imprenditori tessili, imprenditori edili, ingegneri, bancari, medici, dottori commercialisti, giudici e notai.

“Sì beh, ch’hai ragione. Anche perché se c’è il Jack c’è anche la Sissi, che l’ho sentita qualche giorno fa e che è un secolo che non ci becchiamo…”

I piani della serata parevano delineati per i quattro giovani, il secondo Negroni irrorava, fresco e dissetante, le loro gole, e una pace paradisiaca li cullava con i suoi melliflui canti. Solo il trillo segnalatore dell’arrivo di qualche vocale disturbava la quiete perfetta: il brusio degli altri avventori del bar giungeva attutivo, quasi impercettibile. Sui ragazzi calò un pensoso silenzio, come se d’improvviso le cose della vita, gli impegni e le preoccupazioni, fossero riemersi come cadaveri dal fondo del mare. Anche le vestigia delle focaccine parevano assorte in profondi pensieri.

Particolarmente gravose le preoccupazioni del Vitti: da tre settimane attendeva con penosa smania le nuove mazze da golf che si era fatto fare su misura dal più famoso laboratorio di Milano e ancora niente, nemmeno un aggiornamento dal produttore. Quanto ancora dovrò aspettare?

Sento i giorni correre via ratti e indifferenti e voi, voi non siete ancora mie. Maledetto quel venditore, maledetto e menzognero: una decina di giorni aveva detto! Maledetto! pensava, torvo, basculando sullo scranno.


Il gaio ottenne, beato nella sua innocenza di bambino, terminò la gazzosa con un unico, rumoroso sorso e domandò: “Papi, posso uscire nel giardinetto?”

“Va bene, ma non allontanarti e non disturbare le persone, mi raccomando”.

Di norma Giorgio non si sarebbe premurato di ammonire Alessio, per inclinazione naturale tranquillo ed educato, ma in quel locale, il famoso Caffè Macchi, popolato di isterici snob varesini impegnati nel rito dell’aperitivo, gli era parso opportuno inviarlo alla massima discrezione per evitare figuracce. Non era certo un frequentatore di posti del genere, né di gente del genere, ricconi che avrebbe potuto comprarselo e piazzarselo in giardino, lui, povero magazziniere di provincia, ma, dopo un pomeriggio di commissioni tra le vie pavesate del centro aveva ceduto all’urgenza di un prosecco.

Alessio uscì con passo tardo, estenuato per il caotico pomeriggio di shopping, ma felice per il regalo che aveva acquistato per la mamma, di cui quella sera avrebbero festeggiato il compleanno in compagnia dei nonni. Siccome la mamma era la sua cuoca preferita e sapeva sempre come placare la sua fame con succulenti piattoni di pasta o hamburger squisitissimi, le aveva comprato un bellissimo grembiule che recava la scritta “Viva la mia mamma” incorniciato in un cuore di pizzo.

Attendeva in disparte che il papà finisse di bere il vino pregustando le prelibatezze che la mamma avrebbe messo in tavola quella sera e provando ad indovinare quale torta avrebbe preparato la nonna, quando, buttando l’occhio all’interno della vetrata del bar, gli parve di scorgere un profilo conosciuto. Si piegò verso sinistra per ottenere un angolo di visuale migliore, produsse un binocolo stringendo i pugni e portandoli agli occhi e fu certo che si trattasse dello zio Stefano insieme a degli amici e delle amiche

Senza esitare rientrò nel locale per dirlo al papà, che però non trovò al tavolino di prima. Alzò lo sguardo e lo vide che entrava in bagno. Pazienza, per salutare lo zio mica aveva bisogno del suo permesso.


Avanzò con circospezione fino alla meta cercando di non farsi notare. Lo zio era una gran giocherellone e, soprattutto, era solito torturarlo con ore e ore di solletico: era la volta buona per fargli lui un bello scherzetto! Evitò con un’evoluzione un cameriere che avanzava tra i tavoli con passo marziale, accarezzò un Chihuahua che spuntava da una borsetta e: “Buuuu!” fece allo zio, quando gli fu giunto vicino.


Uno boato disumano, una spaventosa deflagrazione strappò i quattro ragazzi dai loro pensieri. Il Chicco, cavallerescamente, prese la mano della Sere e la strinse con forza. Pur nell’ambascia del momento, la ragazza, cuore nobile, si commosse: se devo lasciare questo mondo, vittima innocente del fato cieco e ingiusto, lo farò mano nella mano con il mio amore, quella mano ch’ei mi porge per l’estremo saluto, pensò.

Lo stupore e lo sconvolgimento furono tali per la Gio che le cedette il gomito. Il bicchiere rimbalzò con forza sul tavolo ed una stilla di Negroni, rossa sangue, schizzò dal fondo della coppa e, disegnando nell’aria un arco perfetto, s’andò a posare sulla sua guancia. La ragazza portò istintivamente la mano al volto e lo sentì umido: sarà sangue, sarò ferita, o sarà una lacrima a solcare questo mio volto negli ultimi istanti della mia vita terrena? s’interrogò.

Il Vitti non ebbe nemmeno il tempo di registrare l’esplosione che si sentì cadere. L’onda d’urto prodotta dall’esplosione dell’ordigno in combinazione con il dondolamento della sedia produssero come risultato una rovinosa caduta all’indietro.

“M*** che c*** succede?” gridò sconvolto, attendendo supino che la volta celeste gli crollasse addosso mentre tentava furiosamente di ripararsi il bel viso con le braccia.


Si era sbagliato: non era lo zio, bensì di un signore che assomigliava allo zio e che ora, per colpa sua, era caduto a terra.

“Scusi” riuscì ad articolare Alessio prima di scoppiare in lacrime.

Il Vitti, dalla sua posizione schiena a terra, vide la sagoma dell’attentatore.

Si rialzò tremante e furioso, prontò a far assaggiare al reo l’asprezza del dorso della sua mano.

“Ma che c*** fai? Quante volte te l’ho detto di non dondolarti sulla sedia? È solo un bambino che ha fatto bu!” scoppiò a ridere la Gio, che s’era prontamente ripresa dallo spavento e che con un tovagliolino s’asciugava la gota.

Il Vitti non rideva, lui che aveva rischiato di morire, lui che un bambino qualsiasi aveva cercato di uccidere, che un marmocchio aveva fatto cadere come un cretino nel bel mezzo del Macchi.


“Scusi – ripeté a fatica Alessio tra i singhiozzi – credevo che eri lo zio Ste”.

“Non ti preoccupare, non si è fatto niente - rispose la Gio. Speriamo che mo’ hai capito che non ti devi dondolare, te!”


 

Andrea Galli nasce a Varese nel 1987. Laureato in Lettere, docente e tutor per studenti DSA, legge e scrive prosa e poesia.

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