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"Il re è nudo!". Sulle macerie del CSOA Il Molino e sulla libertà ferita

di Lia Galli

Fotografia di Armida Demarta


Vedere le macerie dell’ex Macello fa male. Sapere che il centro sociale veniva sgomberato e abbattuto dalle ruspe nel cuore della notte, di nascosto e in sordina, mentre buona parte dei suoi occupanti e sostenitori era bloccata dalla polizia altrove è una ferita profonda, non solo per chi il Molino lo frequenta o lo frequentava, ma anche per tutte quelle persone che credono che in una società civile ci debba essere uno spazio di libertà per tutti, e i diritti di ogni cittadino – a prescindere dal suo orientamento politico, dalle sue idee, o dal suo modo di fare cultura – debbano essere rispettati.


Quella demolizione nel cuore della notte fa male, tanto male, per diversi motivi, alcuni di questi hanno a che fare strettamente con il Molino, mentre altri no. Fa male perché in quel luogo, per 20 anni, è stata portata avanti un’idea, quella di autogestione, che ha diritto di esistere. Lo fa perché in quelle mura nell’arco di due decenni sono confluiti progetti, sogni, desideri. Lo fa perché, come ogni luogo, ciò che lo faceva vivere erano le persone che negli anni lo hanno attraversato, confrontandosi su ciò che il mondo e la società potrebbero essere, e insieme hanno sperato, costruito, riso, pianto, amato, discusso. Lo fa perché quando il Molino si è trasferito all’ex Macello, quest’ultimo era un luogo abbandonato a se stesso, e il centro sociale ha preso forma a poco a poco, con il lavoro e la passione di molti, perché va ricordato che nel 2002 al suo interno non c’era nulla e poi, piano piano, sono stati creati un bar e una piccola cucina, due sale concerti, una biblioteca con libri e riviste difficili da trovare altrove, una sala cinema, una sala di registrazione e tante altre cose; ora tutte distrutte, con i libri che fanno capolino dalle macerie, forse in mezzo alle polveri di amianto. Ai suoi occupanti non è stato lasciato il tempo necessario per portare via tutto. Fa poi male - e lo dimenticano sempre, o forse nemmeno lo hanno mai saputo, tutti quelli che commentano la demolizione e ciò che sta accadendo a Lugano, dicendo ai molinari “di andare a lavorare” - perché tutti quelli che frequentavano e portavano avanti il Molino erano dei volontari, che impiegavano il proprio tempo libero gratuitamente per far vivere il centro sociale, non venendo retribuiti, ma facendolo per passione civile, sociale, per un atto d’amore e solidarietà verso gli altri, perché convinti che la cultura, per essere viva, debba includere e non escludere, debba accogliere le proposte che vengono dal basso al di là del successo commerciale o di pubblico. Fa male, maledettamente male. Lo fa perché sgomberare e distruggere quella che per tanti era una seconda casa, approfittando del fatto che gli occupanti di quella stessa casa stessero manifestando pacificamente altrove, è una mossa subdola, che mostra quanto qualcuno abbia temuto un vero confronto aperto, quel dialogo tanto decantato ma poi mai davvero tentato, con il centro sociale.


I motivi per cui questa ferita è così profonda, e per il momento insanabile, si trovano però anche altrove, al di là dell’autogestione e della realtà che abitava in quelle mura del centro sociale ormai distrutte. Queste ragioni sono quelle che hanno portato tante persone lontane dall’esperienza dell’autogestione, e che non simpatizzano nemmeno con Il Molino, a condannare fermamente i fatti di quel sabato notte. Queste ragioni hanno a che fare con l’essenza di ciò che è la Svizzera, ossia una nazione democratica basata sul diritto e non sulla forza, basata sulla proporzionalità e non sulla repressione e sulle azioni punitive. La demolizione abusiva, le ruspe apparse come per magia a Cassarate alle 2 del mattino, l’indifferenza per la salute dei cittadini che forse si sono trovati a respirare polveri di amianto, un esecutivo che decide affrettatamente senza un ponderato dialogo interno e senza risentire, prima della decisione ultima, tutte le sue parti, l’impiego sproporzionato di forze di polizia non solo ticinesi, l’essere al di sopra delle leggi delle istituzioni che quelle stesse leggi le fanno però rispettare agli altri, sono tutti elementi che ci consegnano tra le mani il triste fotogramma di una democrazia traballante, per non dire in crisi, di istituzioni che hanno perso la misura del proprio ruolo e il senso del loro mandato, e di una società che si avvia pericolosamente verso una deriva antidemocratica, autoritaria. Mai in Ticino, e forse anche in Svizzera, si era assistito a un tale atto di forza da parte delle istituzioni, mai fino ad ora i cittadini si erano trovati confrontati con un potere che utilizza modalità così violente e al di sopra della legge.


Tante, troppe, le domande a cui non c'è risposta. Come è possibile che si sia demolito un bene pubblico senza nessuna licenza edilizia? Come è possibile che non si sia fatta nessuna perizia per accertarsi che non ci fossero sostanze tossiche nell’edificio prima della demolizione, soprattutto considerando che l’ex Macello si trova vicino a due scuole e vicino ad abitazioni private? Come è possibile che gli occupanti del centro sociale abbiano ricevuto solo intimazioni di sgombero e non sia stata fatta nessuna procedura di sfratto davanti al pretore? Come è possibile che non gli sia stato lasciato il tempo di portare via tutti gli oggetti? Come è possibile che l’intero Municipio non sia stato consultato e una decisione di tale rilevanza sia stata presa senza profonda discussione interna, e che Zanini-Barzaghi non sia stata nuovamente consultata prima della demolizione? Come è possibile che tanto spazio e potere, in una situazione così delicata, sia stato lasciato in mano alla polizia? Come è poi possibile che la demolizione non fosse prevista ma che in poche ore, di notte, si siano riusciti a trovare ruspe e operai per abbattere un luogo che era stato concesso al Molino da un Municipio precedente e che era legittimamente utilizzato in base a una Convenzione?


In questa storia ci sono solo perdenti, ci sono solo sconfitti.


Ci ha perso il Molino, che ora deve fare i conti con le macerie di un luogo che ha ospitato degli ideali per 20 anni e in cui sono stati impiegati tempo, risorse, passioni, in cui si sono incrociati corpi e storie. Al momento non ci possono più essere i pranzi e le cene solidali, non ci sono più gli eventi culturali (anche se il Molino ha già trovato la forza di proporre, sulle macerie dell’ex Macello, un evento di poesia), non ci sono più i concerti, non ci sono più le chiacchiere davanti al fuoco, non ci sono più i libri raccolti negli anni. È la perdita di uno spazio fisico, ma è anche la perdita di un simbolo – come ha detto bene il rettore dell’USI. Sopravvivono però lo spirito e quelle idee di autogestione e di una cultura libera che uniscono coloro che il Molino l’hanno vissuto e che, come tutte le idee, hanno una forza che trascende gli spazi fisici, una forza che le ruspe non possono scalfire.


Ci ha perso il Municipio che, composto da ben 5 municipali su 7 con una laurea in diritto, fatto tragicomico, non ha rispettato le leggi ma ha agito in modo autoritario, ponendosi al di sopra di quelle leggi che dovrebbe rispettare e ora dovrà fare i conti con le conseguenze delle sue scelte.


Ci hanno perso i cittadini tutti, che si trovano confrontati con una situazione mai vissuta prima, in cui si respira tensione, in cui saranno confrontati con manifestazioni in piazza che forse non avrebbero voluto, soprattutto dopo un anno e mezzo di pandemia. In fin dei conti, ad uscirne sconfitti, sono soprattutto loro, che nell’arco di due giorni si sono trovati a veder spazzato via quello che era un luogo storico di Lugano ben prima che il Molino lo rendesse centro sociale, un luogo che per metà è bene protetto, loro che si ritrovano delle macerie forse tossiche in centro città e che, cosa ancora più importante, all’improvviso devono fare i conti con le derive antidemocratiche e autoritarie di una città che fino a questo momento non sembrava esserlo.


In mezzo a questa sconfitta, forse, c’è però una cosa positiva, ed è lo svelamento di tensioni sotterranee che, non viste o poco viste, probabilmente operavano già all’interno della nostra società. È infatti impensabile che si possa arrivare a una frattura del genere all’improvviso. Non si arriva, infatti, ad azioni del genere, se non c’è già una spinta, una legittimazione di una certa visione della politica, del mondo, della società, delle relazioni. Quelle pulsioni autoritarie, refrattarie al dialogo e all’accettazione dell’altro, di chi è diverso da noi, dovevano quindi essere già all’opera non viste, non tematizzate. Se si leggono i commenti razzisti, sessisti e omofobi di alcuni utenti sotto gli articoli delle principali testate giornalistiche ticinesi, se ne trova traccia e ancora se ne trova traccia se si apre Il Mattino della domenica, con il suo linguaggio degradato, con il suo utilizzo di termini violenti non solo verso il Molino e i suoi frequentatori, per cui vengono scomodate parole come “brozzoni”, “topaia”, ma anche contro il Governo federale che viene chiamato “governicchio”, contro i frontalieri chiamati "maia ramina" o "badini", o contro i sindacati e i partiti non leghisti, che sul Mattino diventano i “$indakati ro$$i” o i “ ro$$overdi” e vengono ridicolizzati con una lingua piena di k e simboletti, che forse non ha nemmeno la dignità di quella lingua che si usava negli sms che ci si scambiava alle medie da adolescenti. Se ne trova poi traccia nei continui richiami all’islamizzazione della Svizzera, non supportata da alcuna cifra né da dati che facciano supporre che ci sia in atto un’islamizzazione - sempre che questo concetto abbia poi un significato - se ne trova traccia in manifesti che paragonano gli stranieri a delle pecore nere da buttar fuori a calci dalla Svizzera o a dei topi che rosicchiano pezzetti di formaggio Gruyère.


Segni di intolleranza verso l’altro, slogan insultanti, mancanza di rispetto verso chi la pensa diversamente, impennate di discorsi populisti che fanno presa sulle paure delle persone e sui peggiori istinti erano quindi già ben presenti all’interno del Ticino. Nel tessuto sociale ancor prima che nel Municipio. Erano accettati, non tematizzati, ignorati, giustificati in virtù di una libertà di opinione che spesso mal si adatta, a voler ben guardare, a commenti che non contengono nessuna opinione ma hanno solo lo scopo di insultare.


Se c’è un aspetto positivo in tutta questa triste vicenda, in questa pagina della storia dell’autogestione ticinese e della storia di Lugano da cui escono tutti sconfitti, è dunque il fatto di aver scoperchiato il vaso di Pandora, di aver portato alla luce delle derive intolleranti e autoritarie che in realtà sono all’opera in molti Paesi europei e non solo in Ticino e in Svizzera, ma che forse qui sono state ritenute quasi folkloristiche e non sono state prese sufficientemente sul serio da parte di quella società democratica che in fondo – e lo si è visto bene in questi giorni in cui si è creato un fronte di sdegno comune per i fatti accaduti che va ben oltre quelli che sono i simpatizzanti del Molino – ritiene ancora che la libertà, il rispetto del diverso, la convivenza tra idee differenti e i diritti civili e politici siano valori importanti, imprescindibili, che vanno salvaguardati, protetti, tutelati.


Forse, ora che è ormai palese la nudità del re, ora che non è più possibile negare che sia nudo, si potrà ricominciare, tutti insieme, a costruire una società che assomigli forse un po’ di più a quegli ideali di uguaglianza, solidarietà, bellezza e libertà che in fondo sono gli unici a rendere ogni vita davvero degna di essere vissuta.

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