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I tre sorrisi di Marco Camenisch

Aggiornamento: 28 nov 2020

Storia del profilo che non ho potuto scrivere


di Franco Barbato


Non era ancora passata una settimana dal suo rilascio dal carcere sangallese di Saxerriet, quando l'attivista anti-nucleare svizzero Marco Camenisch decise di fermarsi nel Canton Ticino, rivoluzionando l'intero “mondo ribelle” della Svizzera italiana.


Era la metà di marzo 2017 e a quel tempo non avevo mai sentito il suo nome, ma l'eco delle voci aveva già suscitato la mia curiosità per questo uomo di 63 anni, di cui 26 vissuti in prigione. I giornali locali annunciavano furiosamente la libertà dell' "eco-terrorista", mentre i commenti di una parte significativa della popolazione adulta del Canton Ticino aumentavano di temperatura vertiginosamente sui social network, ricordando i crimini per i quali Camenisch era stato condannato.


Nel 1979, fu processato e imprigionato per aver sabotato le connessioni ad alta tensione e la centrale elettrica Nordostschweizer Kraftwerke (NOK) a Bad Ragaz, una comunità di non più di 5.600 persone. La sua bandiera di lotta era la protezione dell'ambiente contro l'avanzata del capitalismo e il suo braccio armato: l'industria.


Gli hanno dato 10 anni.


Quel pomeriggio lo ricordo perfettamente. Vivo a Lugano da soli sei anni e il periodo di cambio stagione tra la primavera e l'estate non ha mai smesso di stupirmi. Sono giorni molto strani per me, uomo sudamericano che non ha conosciuto abbastanza il suo pianeta. Il cielo è sempre pieno di nuvole, tutte stipate nel cielo, come se stessero lottando per un posto privilegiato per vedere gli avvenimenti umani. Fa caldo, ma non troppo, ci sono delle piccole tormente e poi smette; i fulmini si fanno sentire e le curiose nuvole di notte si illuminano a intermittenza in azzurro, come un "tremore di cielo". La terra vibra. Quindi esco, non ho altra scelta che scoprire quei magici giorni e notti. Ed è stato proprio in uno di quei giri che sono entrato per caso al CSOA Il Molino, e ho incontrato Marco Camenisch.


Nel 1981 Marco Camenisch fuggì dalla prigione di Regensdorf insieme ad altri cinque prigionieri che, come da racconto cinematografico, fuggirono dal complesso sparando, lasciando una guardia morta e un’altra gravemente ferita. Il nome dell’attivista diventava globale.


Ma Camenisch a quel punto va sottoterra, nella clandestinità.


Un intero decennio nascosto tra i gruppi anarchici della zona di Torino, che gli hanno dato un tetto in cambio del seme del suo discorso.


Prima di mettere piede nello storico centro sociale del Canton Ticino, avevo già trovato strano il gran numero di macchine parcheggiate all'esterno. Non era notte. Non c'era festa. Strano. Entrai e la mia sorpresa fu maggiore quando vidi il gran numero di persone riunite in diversi gruppi di circa 5 o 10 persone, tutte chiacchierando, tutte contente. E ancora più strano, non erano solo punks o "outsiders", ma c'erano anche persone vestite in modo semi-formale, come gli impiegati degli uffici pubblici di un venerdì qualsiasi. C'erano cose da mangiare, alcuni brindavano ad alta voce, ma io non riuscivo a sentire il perché. In ogni gruppo lo stesso nome veniva ripetuto quando i bicchieri si incontravano nell'aria: Marco Camenisch.


Cosa mi ero perso però?


Nel 1991, fu arrestato insieme al suo compagno Giancarlo Sergianpietri nella zona di Massa Carrara, ma non senza prima sguainare la sua pistola e sparare ai poliziotti, tipo Billy The Kid. Nella loro residenza trovarono due armi e sei bombe artigianali. Fu trasferito all'ospedale di Pisa, dove rimase per 6 mesi, e poi nell'infermeria del carcere di San Vittore a Milano. Lo hanno condannato a 12 anni, di cui 9 trascorsi isolato, in assoluta solitudine.


La mia confusione era evidente e mentre cercavo una faccia amica tra tanti sconosciuti, una mano mi prese per una spalla e poi una voce mi disse: “ovviamente non hai idea di cosa stia succedendo qui”. Finalmente, qualcuno che conoscevo. Mi ha spiegato chi era Camenisch e ha sottolineato chi erano alcuni degli ospiti di questa "festa di benvenuto". C'erano politici, comunisti, socialisti, anarchici, ecologisti, leader sociali, artisti, intellettuali, scrittori, tra gli altri. Il mio amico, scherzando, ha lasciato intendere che i droni della polizia cantonale avevano probabilmente già fotografato tutti i partecipanti dal cielo.


Io non ho sorriso.


Nell'aprile 2002 Camenisch fu estradato in Svizzera, nel carcere di Pfäffikon. Nel giro di un anno iniziò uno sciopero della fame contro le condizioni in cui era confinato, ottenendo come risultato il suo trasferimento in una prigione di Coira. Ai tempi, il governo svizzero lo portò di nuovo nella prigione di Pfäffikon. Nel luglio 2004 è stato condannato a 17 anni per l'omicidio di Kurt Moser, la guardia assassinata nella fuga del 1981, crimine del quale Camenisch si dichiara innocente. Ha poi scontato solo 9 anni per il superamento della pena massima di 20 anni prevista dalla legge svizzera.


Io ero confuso, erano troppe le informazioni per me. Volevo capire in un colpo solo, ma non era così facile. Andammo al bar del Molino, ordinammo delle birre, rollammo delle sigarette e dopo un po' arrivò al nostro tavolo “l’uomo del momento”. Ci hanno presentati. Lui sembrava confuso, indifferente e persino un po’ turbato. I suoi occhi erano stanchi e non brillavano. Mi è sembrato un uomo triste. Il suo volto era rigido ma sereno, un poco a disagio. Non sembrava elettrizzato, o almeno non eccitato come gli ospiti. Sembrava polveroso. I suoi vestiti erano vecchi e oscuri ed evitava continuamente il contatto visivo diretto. Io lo cercavo. Io cercavo la sua anima. Volevo capire.


Mentre parlavamo le sue mani giocavano eternamente per stare l'una sopra l'altra, come fanno le persone quando sono nervose. Gli ho detto che sono un giornalista e mi ha guardato con sospetto. Gli ho spiegato che il mio lavoro era sempre stato incentrato sugli emarginati, sulle aree popolari della mia nazione. Mi guardò con aria interrogativa e mi sorrise. Gli ho offerto da fumare. Non voleva. Gli ho offerto una birra e mi ha dato il secondo sorriso di quel pomeriggio.


Il nome di Marco Camenisch divenne una bandiera della lotta in altri paesi. Nel corso degli anni è diventato una specie di "martire" dello stato svizzero. Si sono generate campagne a suo favore in paesi come Messico, Uruguay, Cile, Grecia, Italia, Stati Uniti, Spagna, Germania e molti altri. Il suo nome è un'istituzione tra gli "anarco-ecologisti", che hanno celebrato con gioia la sua liberazione.


Dopo diverse birre, la mia timidezza era un ricordo del passato e ho affrontato Camenisch per dirgli che il mondo meritava di conoscere la sua versione della storia, che doveva concedermi un'intervista. Ha detto di no, poi sì, più tardi se ne è pentito, ma prima di andarsene mi ha detto, con tono consapevole, "OK". Mi ha dato il suo numero di telefono e indirizzo e-mail. "Chiamami", disse.


E così ho fatto, l'ho chiamato e gli ho scritto almeno quindici volte. All'inizio non mi ha risposto, poi mi ha piantato in asso un paio di volte e finalmente, un pomeriggio, l'ho incontrato al centro sociale, dove mi ha detto, aprendo i suoi occhi gentili e più riposati, "Sai, io sto bene così. Scusami, ma l'intervista preferisco non dartela”.


Quella è stata la terza e ultima volta che ho visto sorridere Marco Camenisch.

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