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Eroe per sbaglio. Nicola Frangione vs il G20

di Lia Galli


Nicola Frangione, il docente di inglese in pensione diventato suo malgrado un simbolo del G20 di Matera, non ci sta a passare, appunto, per simbolo e ha smentito gli intenti dissacratori che sono stati attribuiti alla sua apparizione a petto nudo sul suo balcone di Matera.


La fotografia che ha fatto il giro del mondo, diventando velocemente virale, lo immortala sul suo balcone a Matera, a petto nudo, braccia divaricate e appoggiate al parapetto – in una posa che ad un occhio esterno potrebbe sembrare un po’ incazzata - mentre sotto di lui sfilano in completo elegante alcuni politici e partecipanti al G20, il forum economico che riunisce i capi di Stato delle nazioni più ricche e potenti al mondo. La fotografia è scattata da lontano, è un po’ sfocata, e non si riesce a distinguere l’espressione del professore.


Appena apparsa sui social network, l’immagine è stata letta come un atto provocatorio, sovversivo, certamente intenzionale, si è guadagnata da subito il titolo di #picoftheyear e una fiumana di commenti che vanno dall’ «Una volta i potenti stavano sul balcone e gli uomini comuni ascoltavano da basso: per un giorno, grazie al prof. Frangione, i ruoli si sono invertiti» a «Ha ristabilito chi comanda, altro che i 20 grandi».


Frangione, però, non ci sta a passare da eroe no global quando non era nelle sue intenzioni protestare contro alcunché, e ha quindi spiegato tranquillamente al Corriere:


“In realtà non avevo alcun obiettivo particolare. Stavo semplicemente leggendo un libro davanti a casa, come faccio spesso. Un buon modo anche per abbronzarmi. A un certo punto ho sentito avvicinarsi un complesso musicale e, immaginando che stesse arrivando la delegazione del G20, mi sono affacciato incuriosito così com’ero: senza maglietta.”


Un fraintendimento quindi, un’immagine che diventa topica perché estrapolata dal contesto, perché, in quanto immagine, è solo frammento di una realtà che resta necessariamente fuori dall’obiettivo della macchina fotografica. Rappresentazione e realtà non potrebbero quindi essere più distanti che in questa fotografia; lo scatto racconta una storia assolutamente diversa da quanto avvenuto nella vita reale, poiché rimangono fuori dalla pellicola l’attimo prima e l’attimo dopo lo scatto, rimangono fuori le intenzioni, rimane fuori il susseguirsi delle azioni.


Già solo questa discrepanza tra realtà e rappresentazione sarebbe interessante, dato che mostrerebbe, ancora una volta e qualora ce ne fosse ancora bisogno, quanto il medium – anche uno tra quelli ritenuti più oggettivi, come quello fotografico – non sia mai neutro e non possa mai dirsi oggettivo, aderendo davvero al reale, ma sia sempre e comunque un mezzo che influenza il nostro rapporto con la realtà delle cose, dirigendo lo sguardo, estrapolando, distorcendo, frammentando l’esperienza del reale. Le fotografie sono dunque un’interpretazione del mondo esattamente quanto i quadri e i disegni, perché l’inquadratura, la scelta del momento dello scatto riflettono sempre la volontà del fotografo. Lo sappiamo bene, è qualcosa che ormai è assodato, ma che dovremmo ricordare ogni volta che ci troviamo di fronte una fotografia e diamo ciò che rappresenta automaticamente per vero, per incontrovertibile, come se fosse una prova di come stanno davvero le cose.


Fotografia come traccia del reale, diceva Susan Sontag ormai diversi decenni fa, dunque traccia di qualcosa che è accaduto ma che non riproduce mai per intero l’avvenimento di cui porta i segni, ma anche fotografia come atto predatorio, come appropriazione del soggetto fotografato, come aggressione del reale:


“Tuttavia l’atto di fare una fotografia ha qualcosa di predatorio. Fotografare una persona equivale a violarla, vedendola come essa non può mai vedersi, avendone una conoscenza che essa non può mai avere; equivale a trasformarla in oggetto che può essere simbolicamente posseduto. Come la macchina fotografica è una sublimazione della pistola, fotografare qualcuno è un omicidio sublimato, un omicidio in sordina, proprio di un’epoca triste, spaventata.”[1]


Questa possessione simbolica è particolarmente interessante in rapporto alla vicenda di Nicola Frangione, che si è trovato protagonista di un’immagine che distorce completamente – stando alle sue parole – le sue intenzioni e la sua stessa presenza su quel balcone. Non solo egli è stato fotografato contro la sua volontà, di nascosto in fondo, e in un momento di intimità in quanto si trovava sul suo balcone – spazio privato – e parzialmente svestito, ma egli nello scatto è stato derubato delle sue stesse intenzioni, è stato immortalato in un modo che conteneva già in sé il nucleo di una narrazione che non gli apparteneva e di cui non faceva parte.


Se questo aspetto predatorio dell’immagine è sicuramente ben presente in questa vicenda, c’è un altro aspetto sul quale vale però la pena soffermarsi, e questo nasce da una domanda del professore stesso che, stupito del clamore suscitato dalla fotografia e dalla celebrità improvvisa che essa gli ha portato, si è chiesto, laddove altri avrebbero forse semplicemente approfittato della situazione e della visibilità ricevuta, se «Basta così poco per diventare celebri?».


Ebbene, basta così poco? Perché questa fotografia ha avuto una risonanza mediatica così ampia? Perché ha avuto un impatto così forte sull’immaginario delle persone? Perché è stata dichiarata a gran voce “immagine dell’anno”?

Si può forse tentare di azzardare una risposta, pur nella consapevolezza che una vera risposta, quando si tratta di moti viscerali che colpiscono le masse, è sempre difficile da trovare.

Per provare a rispondere bisogna tornare allo scatto in sé, dimenticare la storia che ci sta dietro, scordarsi delle dichiarazioni di Frangione. Bisogna credere a ciò che l’immagine mostra e capire cosa racconta.

Quella che mi pare raccontare è la storia di un uomo comune, sconosciuto e in cui tutti possono riconoscersi, che su un piccolo balcone di un piccolo paese del Sud Italia si staglia muto, nella sua parziale nudità, con la sua sola presenza fisica, su una massa indefinita di uomini in giacca e cravatta.

La sua parziale nudità riporta alla natura, alla terra, al corpo, all’istinto, al desiderio e questa nudità si oppone visivamente ai completi degli altri, completi che incarnano, da sempre, il potere, il mondo delle banche, della finanza, dei ricchi e dei potenti che dirigono le esistenze degli altri. Se Frangione si fosse presentato vestito su quel balconcino, l’impatto visivo e il valore simbolico non sarebbero stati gli stessi; questo è certo.


L’immagine mostra quindi la contrapposizione tra due mondi; un mondo legato alla terra, che potremmo dire “proletario” se questo termine avesse ancora un senso oggi e se non sapessimo che Frangione è un professore di inglese in pensione, e un mondo dell’astrazione, dominato da quelle cifre e da quelle funzioni di potere che governano le nostre vite.

Si tratta quindi di una sfida non solo tra due mondi diversi, ma tra due visioni diverse dell’esistenza, tra due modi di stare al mondo. Tra un uomo e un intero sistema. È un rovesciamento dei ruoli di potere, come mostra anche la maggior parte dei commenti sotto la foto. Sul balcone tradizionalmente riservato ai re e ai papi, ci troviamo un uomo comune, e sotto, ben al di sotto, nello spazio per tradizione riservato alla massa ignorante o adorante, ci troviamo gli uomini di potere. Si tratta di una piccola rivoluzione in fotografia o, almeno, e non è un fatto irrilevante, di un momento specifico in cui la rivoluzione appare possibile. Una rivoluzione potenziale, quindi, che probabilmente non avverrà e non sarà portata a termine, ma che per un istante, nel frangente di quello scatto, ha luogo.


Il successo di questa fotografia sembra quindi parlarci dell’eterno desiderio delle masse, della gente comune, di sovvertire il potere, di riappropriarsi della capacità di decidere sulle proprie vite, riconoscendo di fatto l’ingiustizia che risiede nel fatto che venti capi di Stato – scelti in base alla ricchezza e alla potenza dei loro Paesi – possano decidere delle sorti del mondo. Credo che il successo di questa fotografia ci racconti di questa consapevolezza e della stanchezza, da parte delle persone, di sentire di non poter fare la differenza, di non contare nulla o quasi nulla a livello politico, non potendo di fatto influenzare le scelte dei governi per quanto riguarda le dinamiche nazionali e soprattutto internazionali. Consapevoli, ad esempio, che ci stiamo avviando verso una catastrofe ambientale, sappiamo che la differenza, quella vera, potranno farla solo quegli uomini in giacca e cravatta sotto quel balconcino di Matera, quei 20 che hanno tra le mani il futuro dell’umanità.


Nicola Frangione ha dichiarato:


«Quando la foto ha iniziato a circolare su Internet sono stato contattato da persone che non sentivo da anni, mi hanno chiamato anche dal Canada. E stamattina, quando sono uscito a prendere il caffè, in molti mi hanno perfino chiesto un selfie. Eppure mi sembra di non aver fatto niente di che».


E ancora:


«Da un lato tutto questo mi fa piacere, dall’altro mi induce a riflettere sul piano antropologico. Stiamo infatti vivendo un momento storico complesso, perciò è preoccupante se un fatto così striminzito è stato sufficiente per calamitare tanta attenzione nei miei confronti. Di solito i selfie si chiedono alle persone importanti: mi sembra assurdo che oggi basti così poco per essere considerati tali. Ho insomma l’impressione che agli utenti dei social manchi capacità di analisi e di approfondimento. Perfino persone che ritenevo estranee a quel mondo ho invece scoperto in queste ore che ne fanno parte a pieno titolo. Non lo so, ma mi sembra di essere in «1984» di George Orwell. Evidentemente i tempi sono cambiati…»


Wu Ming 1, in quel saggio eccezionale che è “La Q di Qomplotto”, in cui analizza, tra le altre cose, l’origine, le cause e il diffondersi delle fantasie di complotto, scrive che queste nascondono in realtà un’insofferenza nei confronti di un sistema ingiusto, insofferenza che invece di venire elaborata portando a una messa in discussione del sistema stesso, finisce per essere proiettata su un nemico occulto, in maniera semplificata e con una logica distorta, distogliendo di fatto dalla “consapevolezza che il sistema andava cambiato” e tendendo “ad accusare piccoli gruppi di cattivi anziché cercare cause sistemiche”[2]. Il preponderante diffondersi di fantasie di complotto del nostro tempo – riguardino queste il COVID, Qanon, le scie chimiche, i vaccini o altro – indica quindi un malessere profondo legato al posto occupato dall’individuo “nei rapporti sociali, a disuguaglianze strutturali, alla concentrazione della ricchezza, a come funzionava il mercato del lavoro”[3].


Il successo di questa fotografia – che è stata condivisa, commentata, acclamata fuori contesto e senza conoscerne il senso – e l’improvvisa popolarità di Frangione, che egli giustamente problematizza e vede come un sintomo di scarsa capacità critica - mi sembra che vadano nella direzione di quanto affermato da Wu Ming 1 rispetto alla nascita delle fantasie di complotto, via breve per sfogare il senso di ingiustizia che ci si porta addosso. Viviamo infatti un malessere sociale profondo e invece di mettere in discussione il nostro “modo di vivere, il lavoro, i consumi, i miti, le contraddizioni personali, il tempo passato sui social network, il venerare calciatori miliardari senza pensare che se esistevano gli straricchi era perché altri restavano strapoveri”[4], scegliamo la via più facile e ci entusiasmiamo per uno scatto che ci sembra sovversivo, cullandoci con il pensiero che una rivoluzione, in fondo, è possibile affacciandoci da un balconcino di un piccolo paese o stando comodamente seduti in poltrona, che alla fine l’uomo comune trionferà sul potere anche senza fare nulla di concreto.


Questo malessere unito all’incapacità di mettere in discussione le nostre esistenze è la ragione per cui un’immagine in cui simbolicamente il potere appare sfidato e sconfitto appassiona tanto. Ci consola, ci rassicura, ci esalta. Mettere un like a quella fotografia o condividerla sui social, ci fa sentire come se avessimo preso posizione, come se fossimo anche noi su quel balcone di Matera a petto nudo a sbeffeggiare i potenti e come se questo gesto potesse essere veramente un gesto significativo, capace di cambiare da solo lo stato delle cose.


Frangione, che in un’intervista ha affermato di essersi sempre interessato alle fasce più deboli della popolazione, di averle sempre considerate una priorità sociale, si è ben accorto, con preoccupazione, che il successo della fotografia che lo immortala e la sua conseguente popolarità sono simbolo della pigrizia mentale e del malessere della società.


Dietro la fama decretata dai social network sembrano celarsi, quindi, da un lato uno spurgo della coscienza, un tentativo di lavarsela in modo semplice e indolore, e dall’altro una continua distorsione del reale e una proiezione dei nostri malesseri e dei nostri desideri sugli altri, che improvvisamente diventano o portatori di ciò che noi vorremmo essere ma non siamo disposti a impegnarci ad essere, o capri espiatori di una frustrazione che ha in realtà radici molto più sistemiche e profonde di quanto vogliamo sforzarci di pensare, ma che trova immediato sfogo nel bersaglio più semplice da colpire.


[1] Susan Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, 1978, p.14 [2] Wu Ming 1, La Q di Qomplotto, Alegre, 2021, p.163 [3] Ivi, p.159 [4] Ibid.

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