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Da Pasolini a Fedez. Storia di una parabola discendente

di Lia Galli


Era il 14 novembre 1974 quando Pasolini pubblicava sul Corriere della Sera il suo “j’accuse” in cui denunciava certa politica italiana colpevole di aver dato avvio alla strategia della tensione, alla stagione delle stragi, e di aver voluto stroncare il movimento del ’68 e le sue lotte.


L’articolo, intitolato “Che cos’è questo golpe? Io so[1], venne pubblicato un anno prima della morte di Pasolini, avvenuta il 2 novembre 1975 sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia in circostanze mai del tutto chiarite e che nel tempo hanno sollevato diversi dubbi sui reali responsabili dell’omicidio e sul suo movente. Come esecutore materiale fu infatti condannato Pino Pelosi, rimasto poi l’unico a pagare con il carcere per la morte dello scrittore, anche se in primo grado era stato condannato per omicidio volontario in concorso con ignoti. Quegli ignoti non sono però mai stati individuati, e forse neppure cercati, verrebbe da dire, dato che sulla maglia indossata da Pasolini quella notte erano stati individuati altri due profili genetici distinti sui quali non si è mai indagato.


Torniamo però a quell’articolo del 1974, in cui Pasolini affermava “Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. (…) Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi” e si chiedeva ancora “A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.” [2]


Si trattava di un’accusa nei confronti dell’intera classe politica italiana – compreso quel Partito comunista che nonostante fosse un “Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico” rimaneva di fatto un partito che collaborava con il potere, che agiva, come tutti i partiti, seguendo la logica degli equilibri di potere.


Pasolini si chiedeva, però, in quello scritto una cosa molto interessante; si chiedeva a chi compete fare dei nomi, a chi toccava denunciare e allora si rispondeva che questo compito toccava agli intellettuali. Se sulla risposta si può forse obiettare, la domanda rimane però estremamente attuale anche oggi.


A chi compete infatti fare dei nomi? Molte persone, quasi 50 anni dopo, il primo maggio 2021, hanno ritenuto che quei nomi toccasse farli a Fedez. L’ha ritenuto Fedez stesso, l’hanno approvato in molti, sui social e non.


Andiamo però con ordine per tracciare quella che chiamerò la parabola Pasolini-Fedez, ossia quel percorso che nel corso di 50 anni ha indebolito e spostato il centro del dissenso, trascinandolo dall’esterno del sistema, dai margini, al suo centro, e mutando il paradigma dall’autorevolezza alla popolarità.


Pasolini, all’epoca, aveva denunciato con forza, ma non aveva fatto nomi – almeno non esplicitamente, anche se si capiva bene a chi si riferisse - perché non aveva né prove né indizi che andassero oltre le sue intuizioni personali da intellettuale, il suo collegare avvenimenti apparentemente slegati tra loro. Negli anni precedenti aveva poi denunciato le molte derive della società italiana e del mondo occidentale, da quelle del capitalismo e del consumismo nascenti, al ruolo dei media nell’omologazione culturale e nel diffondere certi modelli culturali disumanizzanti basati sul consumo.


Sempre scomodo, mai allineato, intellettuale di sinistra che però andava spesso e volentieri contro la stessa sinistra difendendo i poliziotti negli scontri di Valle Giulia, prendendo posizione contro l’aborto e il divorzio, Pasolini era un personaggio che si teneva volutamente ai margini del potere e che aveva collezionato, non senza sofferenza, una lunga serie di denunce, di processi, di persecuzioni. Reazionario, controverso, non si era mai allineato al potere, a nessun potere. Nell’Italia degli anni Settanta la voce del dissenso era anche di Pasolini – ma non solo, in realtà, perché gli intellettuali che partecipavano al dibattito pubblico in quegli anni erano diversi e tutti con voci ben riconoscibili – e gli intellettuali avevano un ruolo sociale ben definito, uno spazio, un’area di influenza. Erano anni di lotte per i diritti civili, erano gli anni dei movimenti del ’68 e poi del ’77, erano anni in cui il pubblico era privato e il privato pubblico.


Erano anni che ci appaiono ormai lontanissimi, nonostante ne siano passati solo 40 , lontanissimi per passione civile, lontanissimi per lo spessore dei protagonisti dell’epoca, lontanissimi per l’impegno, la partecipazione, la fiducia nelle possibilità di una trasformazione sociale, culturale e politica. Ed ecco che arriviamo al punto della questione. Se negli anni ’70, infatti c’erano Pasolini, il Gruppo ’63, Calvino e tanti altri ad assolvere il compito di voce critica nei confronti dello Stato e della società italiana, al concerto del primo maggio di due giorni fa, invece sul palco c’era Fedez.


Fedez che è un cantante, che è stato giudice di un talent show, che ha condotto LOL per Amazon prime, che su Instagram ha 12 milioni di followers, che è il marito di Chiara Ferragni. Nel suo intervento al concerto del primo maggio promosso da Cgil, Cisl e Uil e trasmesso in diretta su Rai 3 e Rai Radio2, Fedez ha scelto di lanciare un’accusa su due fronti: da un lato nei confronti di alcuni esponenti politici della Lega Nord, rei di esternazioni inaccettabili sull’omosessualità e colpevoli di ostacolare il DDL Zan, dall’altro nei confronti della Rai che, una volta venuta a conoscenza del testo dell’intervento di Fedez, ha cercato di censurarlo, di convincerlo a non fare nomi.

Fedez non si è però lasciato corrompere, e non solo ha portato in scena l’intervento nella sua integralità, senza i tagli e le censure intimate dalla Rai, ma ha anche denunciato sul palco quegli stessi tentativi di censura che, una volta negati dai dirigenti, sono stati resi pubblici da Fedez sui social attraverso la condivisione della registrazione della telefonata incriminata.


Ed è qui che Pasolini incontra Fedez che, a differenza di Pasolini, fa i nomi, perché in questo caso la questione è certamente meno grave, meno oscura e meno messa a tacere della strategia della tensione degli anni ’70, e quindi gli indizi sono a disposizione di tutti, perché si tratta di dichiarazioni pubbliche rilasciate ai media.


Accostare il nome di Pasolini a quello di Fedez provoca però una vertigine e un senso di rifiuto immediato, e questo per ottime ragioni. Fedez non è un intellettuale ma è un cantante, Fedez non ha pubblicato gli “Scritti corsari” ma canzoni pop come “Vorrei ma non posto” – usata in uno spot pubblicitario per il cornetto Algida - in cui prendeva in giro Chiara Ferragni e cantava “E poi, lo sai, non c'è/ Un senso a questo tempo che non dà/ Il giusto peso a quello che viviamo/ Ogni ricordo è più importante condividerlo/ Che viverlo”, salvo poi sposarsi Ferragni e postare ogni giorno video e fotografie della propria vita. Fedez poi non ha una formazione accademica e non ha intrattenuto rapporti con alcuni tra i maggiori rappresentanti del suo tempo. Fedez non è un comunista che vive con conflittualità il rapporto con il PCI, bensì dichiara di non essere né di destra né di sinistra per poi scrivere la prefazione a un libro di Casaleggio e l’inno del Movimento 5 stelle. E soprattutto, cosa più importante, Fedez non è un critico feroce del capitalismo ma è conduttore di un programma distribuito da Amazon, non ha letto Marx e non ha saputo che quelli con i fazzoletti rossi “erano braccianti, e che dunque c'erano i padroni”[3], ma è lui il padrone, è ricchissimo, vive in un super attico, tiene nel suo garage Porsche e Lamborghini e fa le vacanze a Dubai.


Non si tratta quindi di qualcuno esterno al sistema, ma si tratta invece di un personaggio profondamente immerso nel sistema, che commercializza prodotti, cavalca i mezzi di comunicazione, ha uno stile di vita profondamente consumistico e collabora con aziende come Amazon, che non si può certo dire che abbiano a cuore i diritti dei lavoratori e un’idea di società equa e non finalizzata al profitto.


Sul palco del concerto del primo maggio, però, l’Italia contemporanea ha avuto il suo “j’accuse”, fatto con una lista di nomi e cognomi di personaggi politici omofobi, con la denuncia di un partito, la Lega Nord, che tra le sue battaglie conta la chiusura dei porti, il censimento e la demolizione dei campi rom e ha sottratto 49 milioni di euro allo Stato. E quel “j’accuse” l’ha fatto Fedez. È un fatto. Osannato da buona parte del popolo, criticato da un’altra parte principalmente per i motivi di cui sopra, il contenuto del discorso di Fedez – se considerato a prescindere da chi l’ha pronunciato, ossia dallo stesso Fedez – è un discorso che non fa una piega. È un discorso coraggioso, che si prende la responsabilità di fare dei nomi in diretta televisiva sulla base di fatti e non di opinioni.


Che sia Fedez a farlo, però, stona. Si crea una sorta di dissonanza cognitiva, sempre per i motivi di cui sopra, perché Fedez è comunque emblema della nostra società consumistica, capitalista, è uno che fa gli spot pubblicitari, che fa il giudice ai talent show, che presenta gli show per Amazon. È uno disposto a spendere milioni per un’automobile di lusso, è uno che vive in un super attico e fa una vita da copertina. È un influencer che ha un’opinione su tutto senza avere un vero e proprio campo di competenza, che svende la sua vita sui social alle persone che non arrivano a fine mese e che, a differenza sua, quei milioni non li hanno e quella vita da copertina non se la potrebbero mai permettere, anche se la vorrebbero.


Come si concilia, allora, questa dissonanza cognitiva? Francamente non lo so, ma qualche osservazione sparsa mi sento di poterla fare.


La parabola che ci porta da Pasolini - forse ammazzato a causa delle sue accuse allo Stato ed esterno ad ogni sistema, irregolare, anacronistico, reazionario anche - fino a Fedez, credo che ci dica qualcosa sulla parabola discendente dell’Italia (ma forse sarebbe più opportuno dire della società occidentale) a livello culturale, sociale. Ci dice che quella società di cui parlava Pasolini quasi 50 anni fa, si è ormai pienamente realizzata. Il capitalismo, nella sua forma tarda, estrema, che ci è contemporanea, e l’inevitabile consumismo che porta con sé, non lasciano ormai più una via di scampo, non lasciano più un orizzonte libero dal suo essere tentacolare, proteiforme. Tutto è assorbito, divorato dal sistema. La critica al sistema, per raggiungere il pubblico e avere una risonanza, è concessa e si realizza solo se avviene all’interno del sistema stesso. Chi quel sistema lo critica, in realtà ne è parte integrante, anzi, ne produce e perpetua il modello, più o meno consapevolmente.


Rimane da chiedersi “perché Fedez?”. Perché quel discorso l’ha fatto Fedez e non l’hanno fatto altri? Perché non i sindacati, che pure hanno organizzato il concerto? Perché non gli intellettuali, gli scrittori, i politici? Perché un ruolo di denuncia così importante viene assolto da una persona, il cui nome, accostato a quello di Pasolini, necessariamente stona, ci fa male?


Credo che rispondere ai motivi per cui non siano stati i politici a fare quel discorso sia facile, e il motivo ce lo dice ancora una volta Pasolini. I politici, infatti, sono tenuti ad agire entro un contesto istituzionale, fatto di rapporti diplomatici, di equilibri fragili, di necessari compromessi; volenti o nolenti agiscono in quanto uomini e donne di potere, dunque sono condizionati dal loro stesso ruolo.


Lasciando fuori i politici quindi, che poi ce ne sono pure alcuni validi in Italia, che portano avanti discorsi importanti sui diritti e agiscono, non limitandosi a parlare, come ad esempio Elly Schlein, rimane da chiedersi dove siano finiti gli intellettuali e se ce ne siano ancora. Sarebbe semplicistico dire che effettivamente non ne esistono più, almeno non nel senso che il termine intellettuale poteva avere negli anni Sessanta e Settanta, ossia di persona capace di esercitare un’influenza sull’opinione pubblica, assolvendo a una funzione critica e a un esercizio di messa in discussione costante del reale. Se consideriamo questa influenza e lo spazio che gli intellettuali avevano in passato in Italia all’interno del dibattito pubblico, e lo confrontiamo con la situazione attuale, saremmo costretti ad ammettere che di intellettuali non ce ne sono effettivamente più.


Forse, però, ad essere cambiato è soprattutto lo spazio che queste persone possono avere all’interno della società stessa. È uno spazio che non è più garantito dai media, dai quotidiani alla televisione. La visibilità oggi passa attraverso i social, passa attraverso internet e ad avere davvero uno spazio di parola considerevole è appunto chi riesce a ritagliarsi uno spazio entro questi canali. Fedez stesso nasce, d’altronde, attraverso youtube, come cantante. Ad avere un seguito considerevole sono gli influencer, che hanno saputo sfruttare la rete e gli strumenti messi a disposizione dalla rete facendone un canale privilegiato della comunicazione diretta con il pubblico, ottenendo così persone disposte ad ascoltarne i contenuti.

Oggi ha voce, anche politica, chi ha una visibilità e ha una visibilità chi riesce a utilizzare i social network in maniera efficace. I media tradizionali non sono più in grado – o meglio, non hanno voluto – continuare a ritagliare al loro interno lo spazio necessario per portare avanti un dibattito culturale, sociale, politico. Ergo, anche se ci fossero ancora intellettuali validi in Italia, questi non avrebbero uno spazio pubblico abbastanza considerevole da crearsi un seguito e, probabilmente, non avrebbero nemmeno abbastanza pubblico interessato a cogliere il loro messaggio.


E arriviamo al secondo aspetto che la parabola Pasolini-Fedez mette in evidenza, ossia che all’interno della società italiana, la figura dell’intellettuale, dello studioso, del competente in materia ha perso completamente il suo appeal. Probabilmente per una concomitanza di fattori, tra cui l’impoverimento dei programmi televisivi - fatti ormai solo di reality show, di talk show, in cui si accostano in un flusso ininterrotto tette, culi e tragedie - ha sicuramente giocato un ruolo decisivo. Un altro ruolo importante l’ha forse avuto l’incapacità di trovare un linguaggio che potesse avere come destinataria la società tutta, e non si limitasse a un dialogo snobistico in seno a un gruppo ristretto di persone chiuse nella propria torre d’avorio.


Se per gli intellettuali sopravvissuti al concretizzarsi della società dei consumi rimane difficile competere con Fedez e con i vari influencer in termini di popolarità e visibilità, credo che rimanga almeno il dovere di provare a instaurare un nuovo dialogo con le persone, anche reinventandosi linguaggi, sperimentando nuovi mezzi di comunicazione, cercando canali alternativi a quelli ufficiali. Se questo non avverrà, infatti, l’unica voce critica che potrà ancora esserci, sarà appunto quella degli influencer – i cui interessi solitamente sono più commerciali che culturali - gli unici a poter esercitare ancora un’influenza reale all’interno dell’opinione pubblica oggi.


Un altro aspetto della vicenda è però ancora più preoccupante degli altri, ed è quello che emerge chiaramente dalla messa in rete della telefonata incriminata tra i dirigenti RAI e Fedez. Nella nostra società tardocapitalistica i grandi marchi privati e chi ci sta dietro hanno ormai molto più potere degli Stati stessi. Amazon, Google, Microsoft hanno dei fatturati più alti dei PIL di diversi Stati e, in una società basata sul denaro, questo equivale di fatto ad avere più potere di quegli Stati stessi.


Perché Fedez quindi?


Perché Fedez, essendo assieme a sua moglie proprietario di un impero finanziario, ha potere, ed ha anche più potere della stessa RAI. È stato coraggioso, certo, ma il coraggio si misura anche in base al rapporto con ciò che si potrebbe perdere facendo una determinata cosa. Oggi i soldi comprano anche la possibilità di poter dire liberamente ciò che si vuole senza paura di ritorsioni, comprano la possibilità di avere uno spazio in cui si può dire ciò che si vuole, anche se va contro il volere del canale che sta mandando in onda il nostro discorso. Quanti pensano le cose che Fedez ha detto? Tanti. A chiunque sarebbe stata data la possibilità di dire su quel palco, in diretta nazionale, ciò che Fedez ha detto? Non penso proprio. Scontentare alcuni – Fedez e Chiara Ferragni, in questo caso - può avere conseguenze più nocive per un’azienda (la RAI), rispetto a trasmettere un discorso che va contro alcuni rappresentanti dello Stato e della stessa RAI.


Una volta ci si conquistava uno spazio all’interno del dibattito pubblico e dei media per autorevolezza, per capacità, per competenza. Oggi lo si conquista in base al numero di followers e al proprio potere finanziario. Che una televisione di Stato cerchi di manipolare i contenuti degli interventi che manderà in onda non stupisce, ma stupisce invece (o forse no), che davanti al potere finanziario di un privato cittadino la RAI accetti di mandare in onda contenuti contro lo Stato stesso. Il centro del potere, forse, si sta spostando definitivamente, e forse tra qualche decennio ci renderemo conto che sopra lo Stato si è andata cristallizzando da molto tempo un’entità altra, molto più potente e privata, completamente sregolata e vorace, che sta imponendo definitivamente a tutti le sue regole e le sue volontà.


In un panorama del genere, però, viene davvero da dirsi “per fortuna almeno c’è Fedez”, che usa la popolarità anche per fare raccolte fondi, che ha il potere di dire in diretta tv i nomi dei politici che fanno dichiarazioni discriminatorie, che pubblica sui social i video che palesano le censure e i giochi di potere della RAI. In un panorama del genere, viene quasi da dirsi che poco importa, poi, se quella voce contro il sistema prospera grazie al sistema stesso, se quella libertà di parola gli è concessa dal sistema, proprio in virtù del fatto che ha accettato un posto alla tavola del sistema che condanna.


Una volta il dissenso veniva dall’esterno, da chi cercava di proporre modelli di vita e valori alternativi a quelli del capitalismo e dei consumi, oggi il dissenso è stato inglobato perché solo chi è all’interno del sistema stesso ha una voce abbastanza forte da essere udita. Il dissenso, però, una volta reso anch’esso merce, e una volta diventato spettacolo, diventa inoffensivo. Distoglie dai problemi reali che vengono denunciati. In altre parole, Fedez che dice delle cose vere sul palco, diventa il contenuto, e il messaggio diventa contorno, un fatto irrilevante.

“Ognuno ha l’immaginario che si merita”, cantavano i CCCP.


Il re è morto, viva il re!



 

[1] https://www.corriere.it/speciali/pasolini/ioso.html [2] Ivi [3] Pier Paolo Pasolini, Poeta delle Ceneri in Bestemmia - Poesie disperse II, Milano, Garzanti, 1993


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