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Breve storia di un divoratore. Il drago nell'immaginario occidentale dall'antichità al Medioevo

Aggiornamento: 28 nov 2020

di Leonardo Marchetti


Nella ‘selva dei miti’ che danno corpo all'immaginario fantastico greco si muovono gigantesche e pericolose entità di terra (seppure anfibie), i drákontes, esseri prevalentemente serpentiformi, smisuratamente grandi e crestati. Serpenti forti e veloci, violenti, capaci di saettare fuoco dagli occhi enormi e dalle narici. Così potenti da scatenare tempeste e uragani con il proprio fiato, lo stesso che riusciva ad ammorbare l’aria dispensando morte tra uomini e bestie. Una fauna temibile e terribile, talvolta anonima, come nel caso del guardiano della fonte di Ares ucciso dall’eroe Cadmo, fondatore della città di Tebe; oppure nota, i delfici Pitone e Delfine vinti da Apollo e il primordiale Tifone dalle cento teste di serpente e dal corpo composto da vipere intrecciate, nemico di Zeus che lo combatte e lo bandisce nelle profondità del sottosuolo. Si potrebbe continuare a lungo ma appare subito chiaro che in questi racconti il drákōn (singolare di drákontes) è chiamato a rappresentare l’antagonista del dio o dell’eroe che crea o mette ordine in un passato lontano, precedente all'avvento della civiltà (fig. 1).



Un nemico che incarna il disordine prima dell’ordine, dunque un impedimento da abbattere, sconfiggere o domare per consentire la crescita e lo sviluppo della civiltà, gli insediamenti, la sicurezza abitativa, la messa a coltura e la bonifica delle terre selvagge rese mortifere all'uomo per la presenza del monstrum naturale.


Un’antica figura sottratta al mito da Aristotele (IV sec. a.C.) che nei drákontes avrebbe riconosciuto uno specifico genere animale, più precisamente una categoria di serpenti enormi originaria di aree lontane ed esotiche, l’India tra tutte, e particolarmente ostile agli elefanti. Un’interpretazione naturalistica dei drákontes che sotto il segno di Aristotele venne recepita anche nel panorama latino, ad esempio e soprattutto da Plinio il Vecchio († 79 d.C.) nella monumentale Naturalis Historia in cui si parla dei dracones (trascrizione latina dei drákontes) nei termini aristotelici di grandi creature esotiche.

Si venne così definendo una tradizione che avrebbe attraversato i secoli raggiungendo pressoché senza modifiche gli autori medievali; Isidoro vescovo di Siviglia († 636 d.C.) descrive il draco (singolare di dracones) nelle sue Etimologie, la prima opera enciclopedica medievale. I particolari non mancano: è il più grande di tutti i serpenti e di tutti gli animali sulla terra, il suo habitat sono le caverne dalle quali spesso esce per librarsi nell'aria; ha la cresta, una bocca piccola e stretta, dotata di denti che tuttavia non sarebbero la sua arma più potente quanto invece la coda, con la quale assesta tremendi colpi.


Un secolo prima anche Cassiodoro, politico e letterato cristiano del VI sec. d.C., aveva recepito la lezione aristotelica e pliniana descrivendo la morfologia dei dracones come creature dal corpo molto grande, allungato come quello di un serpente, ricoperto di squame e dall'altissima temperatura corporea, ragione per cui prediligerebbero le caverne umide, così da raffreddarsi. Sempre Cassiodoro chiariva che il draco non strisciava per terra ma preferiva volare. Un particolare quest’ultimo su cui aveva già insistito Agostino, vescovo di Ippona († 430), dal momento che – era noto a tutti – i draghi sapevano volare.

Sono testimonianze che dimostrano la qualità e la quantità di informazioni circolanti sui draghi nel panorama culturale tra tarda antichità e alto Medioevo: il drago come immane ofide a sangue caldo in grado di volare (figg. 2 e 3).



Una serie di conoscenze che da tempo, con l’affermazione del cristianesimo, si era andata combinando con la riflessione dei primi cristiani e dei padri della Chiesa su alcuni passaggi della Bibbia ebraica nella traduzione greca e poi latina. Brani tratti principalmente dai Salmi, da Isaia e da Giobbe nei quali si parla del Leviathan, il mostro policefalo sconfitto dal dio guerriero di Israele, ma anche potente creatura che il medesimo dio, in veste di creatore, mostra con orgoglio a Giobbe; certamente l’acquatico essere mitico che le Scritture accostano mimeticamente al tannîn, anch’esso un mitologico animale marino, forse rettiliforme, nel quale in alcuni passaggi della Bibbia ebraica si scorge chiaramente l’allegoria dei nemici affrontati da YHWH all’inizio del tempo come alla fine e/o nel mezzo del fluire lineare di esso, mentre in altri testi, ad esempio nel libro della Genesi (1,21), il tannîn viene creato da YHWH.


Se anche questo patrimonio mitico vagamente naturalistico venne profondamente condizionato dalle traduzioni greche e poi latine della Bibbia ebraica, che trasformarono indistintamente queste complesse creature in drákontes/dracones, furono proprio testi come quelli citati poco sopra a condizionare direttamente l’immaginario culturale cristiano. In questo senso la figura del nemico dall'aspetto di rettile, accostata al serpente seduttore del Genesi, sarebbe entrata nella visione giovannea dell’Apocalisse (12,7-12) in cui Michele e le sue schiere celesti ingaggiano la battaglia contro il gran dragone rosso “con sette teste e dieci corna e con sette diademi sulle sue teste” contrapposto alla “vergine incoronata dai raggi del sole” incinta del figlio “destinato a governare tutte le genti con scettro di ferro”.


Nella rilettura cristiana di esegeti e commentatori il serpente/drago apocalittico venne velocemente associato al Leviathan descritto in Gb 41,15 ss. oppure alla creatura marina di Gio 2,1 ss., sopravvivendo fin dagli Atti dei martiri e nelle prime vite dei monaci eremiti come allegoria ed emblema del mostro divoratore, il nemico per antonomasia del genere umano: l’uno (il drago) come l’altro (il Diavolo) il segno materiale della persistenza dei molti mali nel mondo, nonché l’indefinito simbolo zoomorfo, sebbene per lo più simile a un serpente, di ogni ‘mostro’ e di ogni cataclisma; l'immagine orribile dell'impotenza dell'uomo di fronte alla vita inghiottita dai suoi avversari: dalla morte alla malattia agli agenti atmosferici.


Rielaborata a partire da questi fondamenti scritturali, la lotta contro il drago, tratto distintivo di eroi e dei, venne adottata e adattata dalla nuova fede alle sue necessità, idoneo strumento di rappresentazione della lotta del cristiano contro il male e allo stesso tempo esaltazione della potenza di un’umanità idealizzata (i santi uomini e le sante donne di Dio) in grado di confrontarsi con il selvatico e l’inabitabile – le caotiche forze della natura – per vincerlo e piegarlo alle necessità del proprio insediarsi o reinsediarsi.

Per questo, se anche in alcuni contesti agiografici il drago incarna il paganesimo, l'eresia, il vizio, i vari nemici della fede generati nella continua evoluzione degli eventi storici, nella maggior parte dei casi la leggenda della sua antica presenza, costruita o ricostruita dall'agiografo, permea ripetutamente di sé le foreste immense, tra i muggii dei mari in tempesta, dall'alto delle vette delle montagne, sulle silenziose isole deserte; una incongrua sopravvivenza di un passato naturale spaventoso e incomprensibile, colorato di fantastico e meraviglioso, lo stesso passato che vaga là fuori, in agguato ai margini della terra dell'uomo, al crocevia di corporeo e immateriale, tra simbolico e archetipico.


Non sorprende che anche nella letteratura cristiana la stratificata carica semantica di cui la bestia mostruosa era stata la portatrice indiscussa nel sacro pagano non sia venuta meno in età tardoantica e medievale; al contrario la sua fisionomia continuò a incarnare la fondamentale ‘alterità’ rispetto al mondo degli uomini. Su questa linea, rivestendosi di volta in volta di contenuti e significati differenti, anche precristiani (e talvolta anche preromani, ad esempio celtici), il drago ha proseguito il suo viaggio popolando testi e immagini latino-occidentali di una fauna fantasiosa ed intrigante ma sempre presentata come moralmente negativa, la stessa descritta e categorizzata nei bestiari moralizzati (esemplare il Bestiario di Ugo de Folieto o il noto Bestiario moralizzato di Gubbio), genere letterario molto in voga nei secoli di mezzo.


Tra XII e XIII sec., a fianco delle descrizioni enciclopediche medievali, proprio i bestiari, piccole raccolte di animali piccoli e grandi, reali o presunti tali, permettono di ripercorrere la storia dei cambiamenti iconografici e concettuali intercorsi nel tempo; in particolare durante l’XI sec. alla tradizionale rappresentazione draconica in forma di serpente eccezionalmente grande si affiancò fino a sostituirvisi nei secoli successivi un’altra immagine ben più complessa: un serpente misto, sempre spiralante e colossale ma dalle ali piumate o di chirottero, zampe anteriori da mammifero o dell’uccello da preda, con orecchie, muso e denti lupino-canini (figg. 4 e 5).



Tolte le ali, riconducibili alla facoltà di volare, ai tratti del canide non dovrebbe essere estraneo il mostruoso lupo norreno Fenris, figlio di Loki, presumibilmente la stessa creatura scolpita sulla croce antistante la chiesa di S. Maria a Gosforth, in Cumbria (Inghilterra), risalente alla metà del X sec., della quale si distinguono, oltre la tremenda bocca aperta, una lingua biforcuta e un corpo da serpente (fig. 6). Un’ulteriore testimonianza della sovrapposizione e della sintesi di immaginari cristiani e folclorico-celtici e norreni, laddove anche nelle Scritture il lupo, affamato divoratore di anime, è un potente simbolo di morte che inghiotte.



Un serpente dalle caratteristiche miste presente in enciclopedie e bestiari come nelle narrazioni agiografiche ed epico-cavalleresche dell’alto e basso Medioevo. Si potrebbe definirlo un animale necessario, lo stesso del quale in misura crescente si venne esaltando il carattere mortale del fiato; un fiato velenoso e incandescente divenuto l’attributo stabile del drago anche in ambito cristiano, perlomeno dal VI sec. d.C., quando la lunga tradizione classica intorno alle esalazioni venefiche dei dracones, raccolta e rilanciata dalla patristica, dai vangeli apocrifi e dalla cultura scientifica del tempo, si sarebbe combinata con elementi pagano-celtici soprattutto britannici, cui si devono le fiamme vomitate dal drago fronteggiate dall'eroe Beowulf oltreché da diversi santi.

Proprio il caso di Beowulf, poema epico composto o codificato in ambito anglosassone tra 750 e 950 d.C. da uno o più poeti a conoscenza di un vasto repertorio di tradizioni cristiane e pagane, dimostra con chiarezza la precoce contaminazione di temi e schemi tra racconti agiografici e narrazioni laiche (una contaminazione precedente la nascita e la maturazione della cultura cortese tra XII e XIII sec.), imponendosi tra le due figure eroiche, tra il santo e il guerriero, uno scambio costante.


Il santo o la santa ad esempio – vescovo, prete, eremita, papa o giovane vergine che sia – interviene a causa delle distruzioni che si riversano su una popolazione inerme e a tratti poco civilizzata, almeno spiritualmente, in favore della quale egli o ella agisce per compassione o spirito missionario, stabilendo con il suo operato un nuovo ordine specificamente cristiano. Anche il guerriero, che non si limita ad affrontare draghi custodi di tesori, può intervenire per porre rimedio alla catastrofe prodotta dal drago; Beowulf, Tristano, Yvain, Gui de Warewic, per citarne alcuni, affrontano un drago infestatore che non soltanto isteriliva le terre e uccideva gli uomini, ma sconvolgeva dalle fondamenta il desiderio di un regno pacifico e fecondo. Un duello il cui esito letale per il drago riafferma l’ordine divino e politico preesistente celebrando al contempo l’eccezionale caratura dell’eroe (figg. 7 e 8).



Altro elemento comune è infatti l’esaltazione delle doti sovrumane di chi affronta il drago, santo o cavaliere che sia. Virtù individuali nel caso dei guerrieri, la potenza di Dio nei santi e nelle sante. Nello specifico il cavaliere, spada, scudo e lancia in mano, intraprende una ricerca personale provando a sé stesso coraggio e onore, ostacolo dopo ostacolo in un climax eroico. La persona santa è già tale a causa della esemplare abnegazione e sottomissione alla volontà di Dio, e se anche dovrà superare delle prove potrà sempre rivolgersi a Dio che interverrà miracolosamente, non così l’eroe che almeno inizialmente dovrà affidarsi alle proprie capacità personali. Interviene qui un’altra differenza, la paura; a differenze dei santi e delle sante, impassibili davanti al drago, gli eroi laici sono colti da un terrore tutto umano che riescono infine a superare ricorrendo alle virtù cristiane – ad eccezione di Beowulf – e alla propria fede in Dio come altrettante armi che si rivelano come le più efficaci nel combattimento, a tal punto da non essere risolutive tanto le doti cavalleresche né le armi ma le preghiere rivolte a Dio, alla Vergine Maria ai santi etc.; preghiere che comunque non determinano un prodigioso intervento del divino, infondono invece coraggio e determinazione all'eroe che, affrontando la sfida, acquisirà fama e autorità.


In effetti la facile natura della dracontomachia agiografica, stilizzata e priva di fisicità – il drago neppure reagisce – contrasta con la sofferenza fisica, gli attacchi, le pugnalate e gli schianti descritti nell'epica cavalleresca, tra colpi e contro-colpi che danneggiano l’armatura del cavaliere, riducono in pezzi le sue armi ferendolo. Solo all'ultimo l’eroe riesce sferrare inopinatamente il colpo risolutivo cui in genere fa seguito il taglio della testa e talvolta della lingua, attributo chiave del serpente, simbolo consueto di arcani saperi spesso interdetti al genere umano.


Infine una considerazione; se dopo il XIII la piena affermazione della tradizione naturalistico-aristotelica consentirà ai draghi di persistere come pericolose entità reali nella cultura zoologica basso-medievale, rinascimentale e oltre, nell'epica cavalleresca il tema letterario del drago e della lotta contro di esso si ridussero lentamente a cliché vuoto e stanco già a partire dagli inizi del XIV sec.; nulla più che una convenzione letteraria troppo familiare per rinunciarvi senza scontentare i destinatari della narrazione. Un riflusso narrativo e simbolico (che culminerà nella scomparsa del drago dalla scena letteraria dopo il Rinascimento) verificatosi proprio mentre nelle terre degli ‘uomini del nord’, lontane come sconquassanti tamburi nella notte scandinava, le grandi saghe norrene – la Völsunga saga, la Ragnars saga loðbrókar, la Þiðreks saga –, composte o codificate sul finire del Duecento, stavano celebrando magnifiche e dirompenti le gesta di eroi come come Sigurðr fáfnisbani e Ragnarr loðbrókar, impegnati nella lotta contro draghi apparentemente invincibili (fig. 9).


I draghi migravano a nord, un’altra estate era cominciata.

















 

Leonardo Marchetti è nato e cresciuto a Firenze, città in cui si è laureato in storia del Cristianesimo moderno e contemporaneo e in Storia medievale. Negli anni ha svolto numerose collaborazioni con enti, associazioni, istituti di ricerca pubblici e privati, e con la stessa Università di Firenze, Dipartimento SAGAS.

È socio corrispondente della SISMED e dell'Istituto Storico Lucchese nonché membro della Society of Biblical Literature. Ha pubblicato alcuni saggi in volumi collettanei e riviste, nel 2016 il SAGAS ha pubblicato la sua tesi di laurea specialistica nella collana di Studi di Geografia applicata LabGeo.

Ha cooperato come educational writer con Scuola di terza generazione, Università La Sapienza, Roma, per la realizzazione di strumenti d’ausilio per l’insegnamento e l’apprendimento. Nel 2019 ha collaborato infine con Historyteller, società fiorentina nata con lo scopo di divulgare la storia nelle istituzioni pubbliche e private.

Docente qualificato di lingua e cultura italiana per stranieri, Leonardo ha insegnato all'USI, Università della Svizzera italiana, e da ultimo in due note scuole di lingua e cultura italiana entrambe con sede a Firenze; attualmente Leonardo insegna come docente privato e docente supplente di storia e italiano.

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