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Apologia del dolore

di Alessia Di Laurenza


Scrivo queste righe di pancia, con un po’ di rabbia, con un po’ di sofferenza, sicuramente spinta dal bisogno quasi fisico di esprimere cosa penso di un argomento che pare sia più tabù del sesso, della morte o della religione: il dolore. Qualche giorno fa, Meghan Markle la duchessa moglie di Harry, si è espressa sul New York Times a proposito dell’aborto spontaneo vissuto quest’estate, del lutto e della sofferenza e dell’importanza di parlarne. Sempre qualche giorno fa è stata la giornata mondiale per l’eliminazione della violenza sulle donne, così come tra i grandi avvenimenti della settimana sento di poter annoverare la morte di Diego Armando Maradona. Potrei continuare, ma voglio soffermarmi su questi tre elementi semplicemente perché sono successi a poca distanza l’uno dall’altro e sembra non esserci alcun elemento di giunzione tra queste notizie, eppure posso quasi toccare il pesante, sgargiante, ingombrante fil rouge che le collega.

Quello che accomuna i tre fatti che vorrei analizzare è il riserbo così forte nei confronti del dolore e della sua espressione da apparire a tratti quasi feroce, sicuramente pericoloso.

Basta aprire i commenti che si riferiscono alla notizia dello sfogo della duchessa per rendersi conto che parlare di un argomento come il lutto per la perdita di un figlio non nato è visto da molti come un insulto, come la spettacolarizzazione del dolore o peggio, come una manovra mediatica per accattivarsi il favore del pubblico. Tutto fuorché un messaggio che voglia dire “è successo questo, ho sofferto, ne ho parlato e ora fa meno male; penso che esprimersi sia importante”. Io la Markle non la conosco ma quello che emerge dai commenti è che non è tanto rilevante chi ne parli e perché, il punto è che l’abbia fatto, che abbia “lavato i panni sporchi” fuori dalle mura domestiche. Sembra proprio questo, il dolore, uno straccio sudicio da nascondere in un cesto, la polvere da spazzare subito sotto al tappeto.

Poi c’è il tema della violenza sulle donne e, se finalmente c’è più risalto al fenomeno, alla denuncia e anche al “recupero” delle vittime, il tanto da istituire una giornata di sensibilizzazione apposita, quello che sento mancante è il pezzo prima. Perché la maggior parte delle volte in ogni storia c’è un prima che viene quasi ignorato, eppure è la fonte di tutto e anche qui, sento che ha una valenza precisa, il pesante fardello del nascondere il dolore. La maggior parte delle violenze viene compiuta da un conoscente, da qualcuno che è vicino alla vittima, da parte di una persona di cui la donna si fida e con cui ha una relazione. Questa relazione, di che tipo potrebbe mai essere? Una relazione sana in cui improvvisamente il carnefice si sveglia con questa veste ed assale la vittima? Sarà capitato, ma non penso sia la norma. La violenza solitamente nasce e cresce in un clima malato di aggressività, di mancanza di empatia, di sopraffazione, di paura e di… dolore. Ma è un dolore che ancora una volta non esce, viene nascosto sotto al famoso tappeto, viene ignorato, viene permesso, viene giustificato, viene perdonato. E, quello che dirò sarà sicuramente poco popolare, non solo da parte della vittima; anche il violento, prima di essere tale ( ma a volte anche durante e dopo ), ha il suo bel carico di dolore che non viene elaborato e che si trasforma in altro. Possiamo continuare a fingere che il mondo si divida in buoni e cattivi, che si nasca in un modo o in un altro e che possiamo solo sperare di incorrere nei primi e stare alla larga dai secondi oppure possiamo aprire gli occhi e il cuore e iniziare a comprendere che la sofferenza è un’emozione umana, presente in ognuno ed è solo la reazione ad essa, spesso, che rivela al mondo da che parte stiamo.

El pibe de Oro, Maradona, deceduto per un attacco cardiaco il 25 novembre, era una stella del calcio, uno di quei miti sportivi intramontabili che difficilmente usciranno dal ricordo popolare, anche dei non tifosi. Era anche molto altro, era un uomo e in quanto tale aveva le sue fragilità, le sue bestialità, le sue paure e i suoi dolori, elementi che l’hanno portato a una vita di eccessi tra alcol, cibo e cocaina. In quanto personaggio mediatico, il suo tracollo fisico e mentale è stato sotto gli occhi di tutti, non per un mese, non per due, ma molto a lungo. Eppure nei diversi elogi funebri, la sua sofferenza era una frase corta tra le virgole di un lungo e ben infiocchettato discorso. Perché? Perché i morti, in quanto tali, diventano improvvisamente perfetti, o per meglio specificare, felici e buoni. Come se ci fosse qualcosa di non dignitoso nella fragilità, nella paura, nella sofferenza.


Stiamo vivendo in un mondo-vetrina in cui sembra siamo obbligati ad essere sempre e solo super uomini e super donne: dobbiamo essere bellissimi, brillanti, buoni, con una meravigliosa carriera, una splendida famiglia, dobbiamo essere sani e dobbiamo essere felici.

Non possiamo essere arrabbiati, non possiamo essere tristi, non possiamo essere fragili, non possiamo essere impauriti, né timidi, né persi. E se anche lo fossimo, dobbiamo fare in modo che non lo venga a sapere nessuno.

Eppure tutti, tutti, almeno una volta ci siamo sentiti così, o a ben dire, ci accade spesso.

Tra le varie definizioni di salute mentale, non a caso ce n’è una che tra le varie competenze indica “essere consapevoli delle proprie emozioni, affetti e modalità relazionali”. Non c’è, credo, bisogno di dire che continuare a ignorare, nascondere e confondere le proprie emozioni ci porti ben lontani dall’essere consapevoli e quindi a stare bene e a stare bene con gli altri. A mio parere, un bel passo avanti che potremmo compiere per noi stessi e per il nostro mondo, è quello di essere onesti. Entrare in contatto con le proprie emozioni, riconoscerle, accoglierle, condividerle e poi lasciarle andare per far spazio alle prossime, che siano “positive” o “negative”. Uso le virgolette perché sono convinta che nessuna delle emozioni possa essere definita come positiva o negativa, perché ognuna di esse serve a farci comprendere che cosa ci sta accadendo e a darci una bussola per orientare le nostre azioni, ascoltare queste emozioni e comportarci di conseguenza sta solo a noi. Penso che poter esprimere liberamente un’emozione “negativa” e condividerla con qualcuno, possa essere davvero catartico, serva ad unire le due persone che condividono e serve all’uditore per sentirsi meno solo quando e/o qualora gli dovesse capitare qualcosa di simile. Vivendo le emozioni in questo modo potremmo sentirci vicini, complici, senza il peso di dover essere diversi da come siamo, potremmo chiedere aiuto prima che il problema diventi troppo complicato per essere risolto, potremmo anche essere più consapevoli delle emozioni “positive”, perché rimarrebbero solo quelle autentiche, potremmo non aver più bisogno di sostanze perché inizieremmo a sentirci in grado di sentire anche il dolore, potremmo essere…liberi.

Rivoluzionario, no?


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