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Immagine del redattoreLia Galli

Paolo Ulgiana Gianinazzi, "Du bist die sonnenstube"

di Lia Galli

Fotografie di Cesare de Vita


Uno tra i meriti del Festival Poestate è quello di saper scovare delle produzioni poetiche poco conosciute, permettendo a chi lo frequenta di scoprire voci che altrimenti, forse, non avrebbe scoperto. Progetti collaterali, che raccontano sguardi obliqui, a volte marginali – nel senso di esterni al centro, estremi rispetto a ciò che si trova sotto gli occhi di tutti - ma proprio per questo portatori di linguaggi nuovi, di una carica abrasiva.

È così che all’interno del patio del Municipio di Lugano possono talvolta nascere dei momenti come quello che si è verificato la sera del 3 giugno, quando si è tenuto l' “Omaggio a Paolo Gianinazzi” con Vito Robbiani, Marko Miladinovic e Viviana Viri per ricordare il poeta Paolo Gianinazzi (24.4.1964 - 31.8.2020) - che era stato tra l'altro ospite a Poestate nel lontano 2002, quando il Festival si era tenuto all'ex Macello di Lugano - e presentare l’uscita della sua opera poetica postuma.


Quelli vissuti quella sera a Poestate sono stati momenti carichi di intensità, momenti in cui è stata chiara la sensazione che la poesia è ancora in grado di formare comunità. Nel patio del Municipio di Lugano, non si trovava infatti nemmeno più un posto libero, perché in tantissimi erano accorsi a salutare Paolo Gianinazzi e l’uscita della sua opera omnia Du bist die sonnenstube, curata da Marko Miladinovic (con la partecipazione di Vito Robbiani e Viviana Viri) dopo la morte di Paolo Gianinazzi, e pubblicata da EIC edizioni. Le sedie ormai tutte occupate, decine di persone stavano appoggiate alle colonne del municipio, altre erano invece sedute per terra e ovunque si respirava un’atmosfera partecipata, al contempo intima e festosa, un'atmosfera che sarebbe probabilmente piaciuta a Paolo. Inutile dire che tutte le copie del libro, fresco di stampa, quella sera venivano vendute e la casa editrice, durante questa estate, doveva procedere a una prima ristampa.


Marko Miladinovic, Vito Robbiani e Viviana Viri a Poestate © Poestate

Paolo Gianinazzi nella sua vita ha fatto ed è stato tante cose. Ha viaggiato molto, facendo nel ‘90 il giro del mondo e continuando poi a viaggiare in bicicletta. Sempre in bicicletta aveva intrapreso l’ultimo dei suoi viaggi sulle rive del Danubio, dove dalla Svizzera italiana era stato dato per scomparso, mentre in realtà in quel momento stava pedalando lungo il fiume, ignaro di tutto ciò che stava accadendo a queste latitudini. Durante la sua vita Paolo Gianinazzi ha poi svolto studi scientifici, ha partecipato a filmati e programmi radiofonici per documentare le sue avventure in bicicletta, ha scritto racconti e poesie, è stato cofondatore di Ci.Cu.T.A. (Circolo Culturale Ticinesi Associati) e della pubblicazione Larrivista.

Chi in Ticino ha frequentato i poetry slam ha inoltre avuto la fortuna di conoscere lui e le sue poesie fulminanti, ironiche, corrosive.



Quando la sua opera omnia è stata presentata a Poestate, io della sua produzione poetica conoscevo soprattutto i testi che aveva scelto di portare in scena ai poetry slam, e non conoscevo invece le molte altre poesie che sono raccolte in Du bist die sonnenstube, opera omnia postuma multiforme, curatissima anche dal punto di vista grafico.

Avere tra le mani Du bist die sonnenstube ha rappresentato quindi per me una vera e propria scoperta di una poetica e di un'opera che conoscevo solo parzialmente, e che presenta registri diversissimi tra loro e un plurilinguismo sorprendente, al contempo caotico e colto, aulico e grottesco, che si inerpica su vette altissime e poi, al verso successivo, ti precipita in mezzo al turpiloquio.



I titoli delle sette sezioni (più una) di Du bist die sonnenstube sono d'altronde già un programma e trasmettono un’idea preliminare della vena poetica di Gianinazzi:

“Io, un adulto?! Accidenti!”, “Di vetri e licheni”, “Stai bruciando”, “Antacrot”, “Libro delle amiche e degli amici”, “Se ti ritrovi nella mia poesia batti le mani”, “Dal cappellaccio una illuminazione bell’e pronta”, “Conflitti”.


Dietro Du bist die sonnestube c'è un enorme lavoro di selezione dei testi, come ha spiegato Marko Miladinovic, curatore dell'opera, durante la presentazione a Poestate; lavoro difficilissimo da svolgersi, poiché “Paolo era un grafomane e scriveva tantissimo”. Le poesie incluse nell’opera sono dunque parecchie, intervallate da giochi grafici e da giochi di parole sempre contraddistinti dall’ironia, dalla voglia di non prendersi troppo sul serio.



Per questa e altre ragioni, Du bist die sonnenstube non è un libro facile di cui scrivere. E non lo è innanzitutto per la varietà che lo contraddistingue, varietà che è spinta fino all'estremo sia per quanto riguarda la forma sia per quanto concerne i contenuti. Proverò comunque in queste righe ad abbozzare un discorso, delineando alcune direttrici attraverso le quali penso che si possa penetrare in quest'opera complessa e multiforme.


Innanzitutto occorre precisare che la poesia di Gianinazzi è contraddistinta soprattutto dalla brevità; si tratta di poesie spesso composte da pochi versi che, a loro volta, sono principalmente versi brevi.

Per questo motivo molte sue poesie sembrano lapidarie, fulminee. Si leggono come una stilettata, appaiono come fasci luminosi che saettano all’improvviso davanti agli occhi e ti lasciano spiazzato. Alcuni testi, come La vita sulla terra, sono composti da un’unica parola (“Carbonio”), altri invece, come Pubblico, sono composti da un unico termine (“(smorfia)”) il cui significato pare trascendere la parola scritta per farsi espressione, mimica, gesto, al punto che questa poesia potrebbe leggersi come parte di una sceneggiatura teatrale composta da un’unica scena, da un unico movimento. Una poesia performativa in cui la parola si fa allusiva divenendo azione.


Dal punto di vista linguistico, la poesia di Paolo Gianinazzi è estremamente interessante. L’uso che fa della lingua è principalmente giocoso, irriverente, con la creazione di numerosissimi neologismi (“giangiostrati”, “sdrabocchiarci”, “aranciomagnetiche”, “sbrlobo”, diapodema, “giullati”, “terafantastica”, “sfrondolare”, “sgniafforare” e altri ancora), e la mescolanza di arcaismi (“labbia”, “solinga”, “magione”, “gioja”), di parole dotte (“protrudersi”, “suppurare”, “peduncolare”, “fromboliere”), di lessico specialistico tratto dal giornalismo (“saccopelisti”), dall’economia (“perequazioni”) dalla chimica e dalla biologia (mannite, catalisi, i dipnoi, il micelio, gli eoippi), di termini tedeschi, francesi, spagnoli, latini e, ancora, inserti dialettali. È una lingua che procede in un’alternanza continua tra il desueto e il non ancora esistente, che avanza a zig zag, che si impenna e poi si quieta. Gianinazzi è infatti capace di lanciare furibonde invettive e di sorprendere, poco dopo, con versi di estrema dolcezza e musicalità.


La sua è una lingua magmatica, espressionistica, che ribolle e poi scoppia in eruzioni bizzarre quando meno te lo aspetti, con una grande attenzione verso gli aspetti fonici del testo. Spesso è una lingua inventata composta – oltre che da veri e propri neologismi – anche da parole distorte (ad esempio Roberta che diventa “Roh-Berta” (p.111)) di cui Gianinazzi muta la forma oppure da espressioni che si trasformano in un’unica parola (“Poliedricadovèiltuocane?”, p.111) o ancora da trascrizioni di suoni (“mamamamama”, p.160; "Pam, pim, pum, rata-ta-ta-ta-ta", p.168) che ricordano gli esperimenti futuristi, fino a giungere a regionalismi e inserti dialettali che non si usano solitamente nella lingua scritta.

Il plurilinguismo di Paolo Gianinazzi è vertiginoso, così come appaiono vertiginosi, enciclopedici, i riferimenti presenti nella sua poesia, che danno al lettore la percezione di trovarsi all’interno di un labirinto in cui la realtà viene decostruita, scomposta in una moltitudine di parti, e poi ricomposta unendo frammenti che apparentemente non hanno nulla a che fare tra loro, ma che proprio attraverso il loro accostamento inedito proiettano una nuova luce sulla realtà.


Quella di Paolo Gianinazzi è infatti una poesia in cui sono presenti innumerevoli riferimenti e una fitta rete di rapporti intertestuali. Tra gli altri, numerosissimi, compaiono riferimenti colti alla filosofia (Schopenhauer, Kant), alla poesia e alla musica (dolce Stilnovo, Anacreonte, Ariosto, Montale, Carducci, Mozart), a creature immaginarie (i sarcopedonti di Roald Dahl), a personaggi storici e mitologici (Didone), ma anche riferimenti alla cultura pop (Cicciolina, le sugus, la Coca Cola, Dan Harrow, personaggi dei fumetti e dei cartoni animati).

Ciò che sorprende non è però tanto questa commistione tra riferimenti che appartengono ad ambiti lontanissimi tra loro, e tra registri e generi differenti all’interno della stessa opera, quanto il fatto di trovarli spesso tutti frullati nella stessa poesia. L’effetto è quello di destabilizzare il lettore.


Per cogliere un esempio di quanto appena affermato, si può leggere Amalia, brutus, poesia all’insegna della metamorfosi, tratta dalla sezione "Libro degli amici e delle amiche", in cui i riferimenti espliciti spaziano da Che Guevara a Didone, ad Amalia la fattucchiera della Disney, fino a Bruto e alla figura dell’ebreo errante, ma in cui si può ritrovare anche, parodisticamente, una variazione di alcuni celebri versi di “Balla” di Umberto Balsamo, canzone carnevalesca spesso protagonista dei carnevali ticinesi. Anche la geografia abbozzata da Gianinazzi nella poesia traccia percorsi atipici, creando una linea di connessione tra Cartagine e il Bigorio in un rimescolamento delle coordinate non solo spaziali, ma anche linguistiche, per cui un “agire” può diventare “scolopendro” (con il sostantivo “scolopendra” che si trasforma in aggettivo) e la poesia può risolversi in un onomatopeico “gnam” e in uno sdoppiamento tra Amalia e Brutus.


Amalia, brutus


Se ti fossi indecisa, farcelo sapere.

Sulle tue gambe da 90 cresce bituminoso il muffo.

Scolopendro il tuo agire e sommo il nostro disagio.

Inventata, reinventata, tata.

Sciogli le gambe ai cavalli, corrono.

E le tue gambe eleganti, ballano.

Specie di fattucchiera, novella pasionaria,

Che Guevara con la gonna.

Tinte verdi e azzurre sbranano il novello sogno

di te su un destriero bianco.

Il tuo unicorno trafigge Giüli, l’ebreo errante.

Novella Didone, gran fondatrice di Cartagine,

soffia il tuo alito mefitico sul Bigorio.

Donnellina dalle temprate armi,

giaci sulla spiaggia pelagica

e sferra il tuo attacco contra mondes.

Sei tanto apparecchiata, da non distinguere

più tra osso e cartilagine;

ti trasformi in pescecane e, gnam, ingolli.

Non solo Amalia.

Brutus de’ brutus.


L’effetto della poesia di Paolo Gianinazzi è quindi spesso surreale - impossibile non pensare ai giochi surrealisti e alla furia caotica del dadaismo - in quanto riesce a fondere elementi distantissimi tra loro, unendo riferimenti mitici e magici a un realismo talvolta al limite del grottesco. Il gioco linguistico, la parodia e un uso diffuso dell’ironia rimangono, però, una costante di fondo, che lega tra loro testi anche molto differenti per temi e intenti, come si vede bene leggendo in parallelo la Poesia in parte inventiva - in cui la sperimentazione linguistica viene portata alle sue estreme conseguenze - e Curiccula - poesia in cui l'ironia si gioca non tanto sul piano lessicale ma piuttosto retorico e contenutistico - oltre che, più in generale, osservando da vicino buona parte della sezione “Antacrot”, in cui le immagini sono spesso costruite sull'antitesi e sull'accostamento di campi semantici lontanissimi, risultando spiazzanti:


Poesia in parte inventiva

Davanti sbrloba la candida neve.

Et io starnutisco, e anch’ogn’ra vlado.

Sperperamintami hutu contro tutsi.

Suerte de machismo contro lombroni.

Desso siane fabbricati allo snocciòlo.

Desto caliente frommo a-maggio.

So che su svolgono matrazzi agonici.

Encomiastico sparlaurenzo vettivo.

Sogno gnobile gnacco e rignacco.



Curiccula


Faccio un viaggio da proconsole, e addebito

per così dire tutte quante le spese a Geremia

anche perché ha appena vinto le Geremiadi 2008.

Io d’altro canto, posseggo poesie a go-go,

e non ho bisogno di venderne per mangiare.

Mi spiace per contro quando trovo dei segni

nella realtà che mi fanno uscire dal subliminare

e entrare in quella specie di rapporto con me

stesso dove ho voglia di esserci, ma non troppo.

Domande e risposte.


È così che Paolo Gianinazzi riesce a rappresentare un dialogo con una vongola (“Cosa ne faresti di una vongola?”, p.66; “Cosa ti ha detto la vongola?”, p.67), a immaginare il sudore come modo “per far/circolare l’acqua tra cielo e terra” (p.102), a “sentirsi suino/sopra una chiesa” (p.149), a rappresentare “bambini indiavolati” che “tirano leve audaci/trasportando virus/di Ovomaltina” (p.129) o ancora a farci visualizzare “cameriere discinte" che "spruzzavano ormoni gareggiando/ con la mela di Newton” (p.41).


L’attenzione agli aspetti fonici del testo, ai rimandi sonori, come si diceva, è poi una costante nell’opera. Non sorprende dunque che ci sia un grande utilizzo da parte di Paolo Gianinazzi soprattutto delle figure di suono, con un largo uso dell’allitterazione, della paronomasia, dell’onomatopea, di assonanze e consonanze e rime interne.


Nella sezione “Libro degli amici e delle amiche”, Gianinazzi sembra invece quasi rifarsi alla poesia comico realistica, rovesciando i canoni della poesia stilnovista e della lode alla donna amata, e tracciando dei ritratti comici di donne contro cui scaglia delle invettive giullaresche, mostrando al contempo, però, sempre la forza che le contraddistingue. Allo stesso modo, il rovesciamento della lode alla donna in un gioco parodico, si trova anche in poesie appartenenti ad altre sezioni, come in Panchin’amor:


Meriti uno stil nuovo,

abbracciata alla finestra

col tuo culo in bella vista.


Accanto all’invettiva, alla parodia e al divertissement, nel libro sono però anche presenti aperture liriche improvvise di grande profondità e delicatezza, come Poesia crepuscolare, in cui però l’ambivalenza è comunque presente, come si può osservare tra il quinto e il sesto verso in cui troviamo quello “spesso” usato come aggettivo e poi subito dopo come avverbio:


Poesia crepuscolare


Fotoni dappertutto,

incapaci di cozzare come si deve,

ci trafiggono ad ogn’ora,

ci rimbalzano.

Io guardo da una finestra di vetro spesso,

spesso.

Vedo tutti questi fotoni, penso alla gravità

e poi al fatto che non sappiamo niente

e che dio è una parola collegata a un sentimento.

Invenzioni.


La domanda sul senso della vita, la percezione che la vita sia un mistero a cui è impossibile trovare spiegazioni o risposte, è d’altronde uno dei grandi temi che percorrono tutta l’opera di Gianinazzi, il quale sembra giungere alla conclusione che tutto ciò che esiste è già qui e la “(…) vita/che è, solo è. Nel bene e nel male.” (Scrivere, p.13). L’impossibilità di trovare una risposta alla finalità della vita è in sé, essa stessa, il mistero: “(…) Stelle bianche baluginano orme di una risposta/ che non c’è./ Ecco il mistero, il baratro che mozza il fiato./ Nero siderale.” (Pensata caleidoscopica, p.53).


Rinunciare a una dottrina, rinunciare a seguire una religione e dei dogmi prestabiliti diventa allora un modo per ridiventare soggetti della propria esistenza, creatori di nuovi valori – come diceva Nietzsche - e per raggiungere, forse, la felicità:


Trascendenza


È solo abiurando

che vedrai la luce.

Subito starai meglio.

Sentirai per la prima

volta di avere uno

scopo vero nella vita.

Ti porterò alla felicità

assoluta e infinita.


Un altro tema che percorre tutta l’opera è quello dell’identità. La difficoltà di definirsi, di formarsi, di scendere a patti con il diventare adulti, così come la necessità di scoprire i propri limiti e la propria natura.

Lieto fine


Conto le sugus nel cortile, colto da autismo temo,

il mio lavoro febbrile.

M’alzo da terra e cambio la prospettiva.

Vedo i miei tic e non mi do pace.

Vedo l’uomo così come dev’essere.

Ci arriverò mai?

Che sia in un cambiamento?

Chissà cosa ne uscirà?

È come se vedessi la realtà!

E ne avessi un po’ paura.

Io, un adulto?! Accidenti!




Quella santa voglia di uccidere


Quando la furia ti sale

su dal dentro

e destabilizza

il già precario equilibrio,

allora colpisci!

Poi, lo sai che non l’avresti fatto,

lasci cadere dalla tua mano

il sasso, il coltello, il fucile,

cadono esangui,

senza aver ucciso.

E il tempo ti scivola giù

dalle gambe

bagnando le latrine.

Raccogli un fiore, un nasturzio

maturo, saggio,

per quanto mai lo possa essere un fiore.


Anche la riflessione su Dio e sulla religione percorre la raccolta. “Come conciliare l’esistenza del male e della guerra con i suoi “1234 morti a basso volume” con l’esistenza di Dio?” sembra chiedersi Paolo Gianinazzi nell'intensa poesia 2°tempo in cui compie una riscrittura amara del “Padre nostro” e, più in generale, si rifà alle forme proprie alla preghiera, e in cui la lingua, ancora una volta, viene storpiata imbastardendo e parodizzando il latino e ricorrendo a un pastiche in cui sembra di ritrovare un sentore di un volgare italiano duecentesco:


Jesu, Jesus protegici et difendici,

ke la tua ora è arivata.

Verrai salmodiato a sazietà,

così in cielo come in terra.

Ed liberarci dal male, oh etterno.

1234 morti a basso volume.

Di cipria abrasiva, calce viva.

Le salopette infrante sugli scogli puberali

marciono stracotte fra le scelte.

E tu dici bene e racconti del cingolo

del carro armato

che ha insudiciato le strade di sanque.

Poi la trama continua ma non le stiamo più dietro.

Dove è la fine?


Dopo aver provato a percorrere la raccolta, mettendone in luce alcuni tratti stilistici e alcuni temi - anche se moltissimo ci sarebbe ancora da dire - credo di poter affermare che ci sia, all’interno dell’opera, una poesia che vale la pena di riportare qui, poiché condensa in sé buona parte dei temi e dei principali tratti stilistici di Paolo Gianinazzi, ed è la poesia che giustamente apre la raccolta:


Oh natura come subcultura di lignea ispecie.

In fondo siamo tutti elementi

della tavola periodica.

Materia che ripresenta ciclicamente

delle somiglianze.

Mangiare un’insalata al litio,

bere chiodi di garofano,

sottostare al dominio governativo

della propria compagna.

So che sembra non c’entri.

Ma tant’è: passo dal caos all’ordine e dico:

un garofano e un’istrice si possono innamorare?

In fondo sì. Ma allora la teleologia, intravista

da scienziati si nasconde –svergognata–

sotto un sasso?

C’è un progetto? Un fine, nella natura, o sarebbe

–paradossalmente– naturale anche la sua scomparsa?

Se il mondo non lo vedo più, significa è scomparso?


Solipsismus.


Un conclamato connubio tra un micelio

e una putrella d’acciaio

fa parte del concetto di natura

così come una mano senza unghie

è umana, seppur tridattile.

Gerontofrasto si chiedeva queste cose

sotto un albero di frasco.

Le sue nocche tremavano, quasi come biglie di vetro

dentro una gabbia di ferro, che lasciasse

loro un minimo gioco.

Nelle narici un odore di pelle di donna,

a far da corollario

alla magnifica mimica di un tarsio in amore,

rimbalzante tra i rami.

L’occasione si presenterà?

Un’illuminazione tale da potere nei secoli,

o anche per pochi secondi, infilare

nella testa di qualcuno

che lui aveva capito, con la c maiuscola.

Natura, cultura, tecnologia: tutto e niente.

Vuoti dogmatici si rilassano dentro di me

quando immagino

piantagioni di lattughe bagnate in un lunapark.

E intanto

le cellule si parlano, di un linguaggio chimico

e un po’ quantistico.


Sono nella sala d’aspetto di un dentista,

vicino a me siede una vecchia signora

topograficamente definita dalle rughe.

I nostri avambracci si sfiorano.

Comincio a sudare perché

ho paura che le nostre cellule si leghino.

Cosa glielo impedisce?


Questo testo mi è parso particolarmente significativo, perché in esso si nota come la poesia di Gianinazzi proceda attraverso la creazione di immagini antitetiche (“un’insalata al litio”; “un garofano e un’istrice si possono innamorare?”), iperboliche che presentano sempre una vena fortemente ironica – a tratti anche polemica – come si evince dal “(…) dominio governativo/ della propria compagna”, ma che cela domande più profonde (“Se il mondo non lo vedo più, significa è scomparso?”), che riguardano il senso dell’esistenza, la conformazione degli esseri umani e dei loro rapporti (“ho paura che le nostre cellule si leghino. Cosa glielo impedisce?”).

Come scrive lui stesso in questa poesia, Gianinazzi passa costantemente “dal caos all’ordine” e viceversa, per cui la forza dei suoi testi risiede proprio nella capacità di costringere all’interno della forma poetica una moltitudine di mondi e di contraddizioni, che attraverso il loro incontro-scontro generano immagini nuove, come quella delle “piantagioni di lattughe bagnate in un lunapark”.


Paolo Gianinazzi moriva il 30 agosto di tre anni fa, ma noi - anche grazie a questa opera - possiamo e vogliamo ancora immaginarlo “sdraiato incombente su una stuoia celeste” intento a comprare “delle arachidi” (p.80) oppure preso ad annotare che “Il Vito è alto 174 cm” e per il “Japan” servono:



bici

catenaccio

camera d’aria con valvola per auto

pila

corni sul manubrio

grasso per catena

borsa anteriore

giacca da bici

minitenda x 2 persone

zaino

sacco a pelo poco ingombrante


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