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#1 Una riflessione critica sul fenomeno del poetry slam

Aggiornamento: 28 nov 2020

di Lia Galli

Fotografia di © Igor Grbesic

Negli ultimi anni il poetry slam sta ottenendo sempre più successo a livello di pubblico sbarcando, tra maggio e giugno 2019, anche in tv, per l’esattezza a Zelig, programma tradizionalmente legato al cabaret, all'intrattenimento leggero, alla comicità.


Un format, quello del poetry slam che, come dice il nome, è incentrato sulla poesia e in cui vigono poche e semplici regole – tre minuti a poeta, solo voce, testi propri – è quindi riuscito a portare la poesia laddove la poesia non ha mai avuto spazio, ossia a Zelig, e dove, almeno in tempi più o meno recenti ne ha avuto poco, ovvero in televisione.


I riflettori di Zelig, oltre a far conoscere al grande pubblico il fenomeno, a suo tempo hanno attirato su di esso l’attenzione della critica, dando vita a un dibattito che ha preso il via da un editoriale particolarmente critico di Matteo Fantuzzi su Atelier[1] a cui sono seguite le risposte su Midnight magazine di Nicolas Cunial[2] e di Julian Zhara[3] in difesa del format e della poesia che in quel format viene proposta. A questi primi botta e risposta, che hanno avuto largo seguito anche sui social network dando vita a vere e proprie polemiche non sempre pacate nei toni, sono poi seguiti altri interventi, tra cui quello su Le parole e le cose di Simone Burratti[4], che si è preso il rischio di fare dei nomi, quello di Dimitri Milleri, che ha suggerito dei parametri critici per distinguere la pura testualità dall'atto con cui il testo viene messo in scena, e alcune puntuali osservazioni di Davide Castiglione rispetto alla problematicità dello scegliere, all'interno di un mondo vasto e eterogeneo come quello del poetry slam, un campione rappresentativo di autori da analizzare.


Il dibattito di allora ha messo in evidenza la necessità di elaborare una riflessione critica sulla natura della poesia presentata nell'ambito del poetry slam, riflessione che per essere portata avanti in modo costruttivo necessita però di un lavoro di analisi dei testi e delle relative performance.


Se a livello teorico si è infatti disquisito a lungo su cosa sia o non sia accettabile in poesia, e sull’appartenenza o meno dei testi performati all’ambito della poesia, ciò che si rivela interessante e necessario è il chinarsi realmente sui testi per basarsi su dati concreti, formali e contenutistici. In quanto i testi portati agli slam sono testi messi in atto, in voce, è però fondamentale non limitarsi a analizzarli solo nella loro componente testuale, ma considerarli anche nella loro resa orale, così da proporre un confronto tra testualità e oralità, scoprendo via via quali sono gli eventuali punti di forza e di debolezza dei testi e delle loro relative performance, nonché quale rapporto sussista effettivamente tra i due.


Con questo articolo prende dunque avvio una rubrica, che diventerà un appuntamento fisso, incentrata sull'analisi dei testi e delle performance presentati nell'ambito del poetry slam.

Prima di addentrarci, nelle prossime settimane, in un’impresa che appare titanica fin dalle sue premesse, data la mole dei testi e la varietà degli autori, si proverà quindi a ripercorrere, seppur con brevità, gli argomenti avanzati da chi si è espresso sulla questione per capire da quali premesse si sta muovendo il discorso e porsi qualche domanda, per poi, in un secondo tempo, iniziare a riflettere in modo concreto sui testi e sulle performance.


Matteo Fantuzzi, nell’editoriale “Contro un possibile dadaismo”, si preoccupava e si interrogava sulla direzione che stava prendendo la poesia italiana e in particolar modo esprimeva perplessità rispetto alla mancanza di distinzioni formali e sostanziali all’interno del mondo poetico:


“Dagli slam fino al meticciato del rap, tutte queste forme sembrano voler ricadere ed essere contemporaneamente accolte nella comunità della poesia, una poesia tout court senza alcun tipo di distinguo né formale né soprattutto sostanziale.”


In un’intervista con Matteo Fais apparsa su Pangea[5], Matteo Fantuzzi si spingeva oltre, affermando:


“L’innovazione come in qualsiasi altra materia è necessaria, il caso italiano è un poco strano perché si cerca di proporre come poesia quello che poesia non è e che appartiene ad altre categorie, né migliori né peggiori, semplicemente altre. Per quale motivo dovremmo definire poesia gli slam poetry? Sono una forma spettacolare di testi che hanno magari una buona dose poetica, ma non collimano con la poesia. Sono un’ottima forma di intrattenimento, non per nulla sono stati accolti recentemente da Zelig dove giustamente c’è gente che va lì per ridere, per divertirsi, per assistere a degli spettacoli in cui tra un “Chi è Tatiana !?” e un “Amici ahrarara” giustamente trovano la loro corretta collocazione, e lo dico senza polemica né volontà provocatoria. Sarebbe sufficiente che ogni categoria si mantenesse nei propri ambiti: il rap non è poesia e viceversa, il trap non è poesia e viceversa, le pesche non sono poesia e viceversa.”


La posizione di Fantuzzi è dunque chiara. A suo parere il poetry slam non propone poesia, ma una forma di intrattenimento basata sulla spettacolarizzazione che poco o nulla ha da spartire con ciò che invece è poesia e si inscrive, anche solo per stravolgerla a volte, in una tradizione ben definita.


È vero quanto affermato da Matteo Fantuzzi? La poesia portata a Zelig o, più in generale, i testi portati agli slam davvero non sono poesia?

Si tratta effettivamente di testi che reggono solo sul palco o sono capaci di reggere anche la pagina? Quali sono gli aspetti formali e contenutistici proposti? Un testo concepito per essere performato ha una propria autonomia letteraria - e vale dunque la pena di chinarsi anche sul testo scritto - o va considerato solo in relazione alla sua messa in atto, alla performance?


Per rispondere a queste domande occorre necessariamente partire dai testi di quegli autori che sono stati chiamati a partecipare al poetry slam di Zelig, un po’ perché Fantuzzi citava apertamente la trasmissione - e il dibattito attorno al fenomeno prendeva avvio da quest'apparizione televisiva - e un po’ perché la scelta di far partecipare determinati autori allo slam di Zelig è parlante rispetto a vari aspetti ed è frutto di una precisa operazione culturale, come ci ha spiegato Paolo Agrati - uno degli organizzatori del poetry slam a Zelig assieme a Ciccio Rigoli e Davide Passioni - in un'intervista che proporremo a breve.


In ogni caso ritengo importante scegliere come campione rappresentativo della scena del poetry slam proprio quegli autori che, all’interno dell’ambiente, sono stati scelti per portare in televisione un ritratto di quel mondo. Il mondo del poetry slam – o almeno una parte di quel mondo – ha scelto di dare di sé una certa immagine e di autorappresentarsi in un certo modo, ed è dunque corretto basarsi proprio su quell’autoritratto che, selezionando alcuni autori piuttosto che altri per il palco di Zelig, questo mondo ha scelto di consegnare agli altri. Questo procedimento mi sembra corretto sia che si voglia intendere il poetry slam come un genere o un movimento, come sostengono alcuni, sia che si voglia invece vederlo come un insieme di voci molto differenti tra loro ma rappresentative di un certo contesto.


Torniamo, però, al dibattito per prendere in considerazione le reazioni alla presa di posizione di Matteo Fantuzzi. Julian Zhara, rispondendo alle affermazioni di Fantuzzi, gli rimproverava, tra le altre cose, di considerare il poetry slam come un genere e non come un format, presa di posizione che fa sorgere diverse domande.

È vero che il format non determina forme e contenuti dei testi, come sembra alludere Zhara? Non c’è nulla che accomuni a livello stilistico e performativo i testi portati agli slam? Quale dimensione aggiunge la performance al testo? Ci sono elementi comuni nei testi e nelle performance degli slammer al punto che si possa effettivamente catalogarli in un genere o ci sono troppe differenze formali e contenutistiche per racchiuderli in una stessa categoria?


Nella lettera di risposta scritta da Nicolas Cunial a Matteo Fantuzzi compare invece un’altra affermazione che fornisce uno spunto per interrogarsi sulla natura del poetry slam. Cunial affermava infatti che il poetry slam è stato un format in cui ha “incontrato tantissimi validi poeti e tantissimi validi performer” aggiungendo che “non sempre queste due figure combaciano, ma spesso sì.”. Su questo punto torneremo in futuro, prendendo come base di partenza le riflessioni di Rosaria Lo Russo sulle differenze tra poeta e performer, ma per il momento è comunque utile porsi alcune domande.

Quali sono allora le caratteristiche di un valido performer e quali quelle di un valido poeta? Cosa rende valido un performer? Se un performer è valido ma fa della pessima poesia cosa sta portando sul palco? A cosa sono dovuti gli applausi e il riscontro del pubblico conquistati grazie alla performance?


Cunial affermava poi che “non tutto ciò che viene declamato in un poetry slam è poesia”, e che il discrimine tra poesia e non poesia risiede nell’intenzione di chi scrive, dato che “un testo scritto con la sciatteria di chi non ha altro obiettivo che generare la risata, o il pianto, senza usare alcuno strumento proprio della poesia” non è poesia. Tralasciando il discorso legato all’intenzione, la quale da sola purtroppo non basta per fare buona poesia, è interessante chiedersi se nei testi portati agli slam si trovino all’opera gli strumenti propri della poesia e, se sì, se vi siano degli strumenti più utilizzati di altri e più funzionali al format e alla resa orale di un testo.

Se gli strumenti della poesia sono da un lato la metrica, il ritmo, la retorica, il lessico e dall’altro i temi, l’innovazione di quei temi, l’intertestualità e l’intratestualità, quali di questi strumenti troviamo all’opera nei testi presentati a Zelig? Se ci si spinge oltre, bisognerebbe anche interrogarsi sulla ricezione di quei testi. È possibile per chi ascolta uno slam intravedere questi strumenti, cogliere tutti i significati? Quali strumenti poetici e testuali possono decretare il successo o l’insuccesso di un testo una volta che questo viene restituito al pubblico oralmente, attraverso una performance?


Un punto di partenza interessante su cui fondare un’analisi di questo tipo veniva suggerito su “Midnight magazine”[6] da Dimitri Milleri che, rifacendosi a categorie utilizzate per giudicare le performance, rifletteva sul rapporto tra testo e atto. Tra le riflessioni di Milleri, ritengo i seguenti punti valide premesse da cui partire:


"-“1.Così come la performance può essere pensata per restare filologicamente fedele ai significati e alle forme del testo ed esserle dunque asservita, essa può configurarsi come un atto di appropriazione. In questo secondo caso essa acquista un valore estetico autonomo e risulta inservibile ai fini della conoscenza del testo stesso.”;

- “2. Ascoltando una performance poetica è possibile ignorare il testo su cui essa si basa È quello che accade, per esempio, quando ascoltiamo una canzone in una lingua sconosciuta. Pensiamo a Shakespeare e a quante poche indicazioni registiche troviamo nelle sue opere: è chiaro che la performance deve necessariamente supplire a questa mancanza (attraverso una ricerca storica o una libera integrazione) facendone un oggetto estetico altro rispetto al testo.”;

- “Dai punti 1. e 2. si evince che è fuorviante sovrapporre testo e performance, in quanto la seconda trasforma inevitabilmente il primo (non solo dal punto di vista del medium). Così come una buona poesia non garantisce una lettura decente, un grande attore non può fare bello un testo brutto. Crediamo sia doveroso tenere separate le valutazioni di questi due oggetti estetici, come è in musica fra partitura ed esecuzione, in modo da non creare confusione ed evitare che ad un giudizio positivo su una performance corrisponda lo stesso giudizio sul testo che la sostiene (e viceversa).”."


Se è certamente “fuorviante sovrapporre testo e performance” può però essere interessante confrontare il testo e la performance di quel testo così da capire in quale modo essi dialoghino tra loro. Al contempo, visto che condivido il pensiero di Simone Burratti riguardo al fatto che “qualsiasi medium influenza, di poco o di moltissimo, la forma del discorso”[7], analizzando i testi e analizzando le performance di quegli stessi testi all’interno del format del poetry slam, dovrebbe essere possibile vedere se questo effettivamente influenzi la forma dei testi e se lo faccia davvero nella direzione di “una maggiore attenzione all’immediatezza, una semplificazione del sottinteso, una probabile insistenza sulle figure foniche” o in altri modi.


Un'altra considerazione espressa da Burratti a cui vale la pena di accennare in questa sede è la seguente:


"Ho volutamente evitato di portare esempi scritti credendo, in tal modo, di rispettare la volontà dei performer, di non snaturarne il lavoro; inoltre, soffermarsi troppo sull’analisi stilistica significherebbe fare le pulci ad autori che, con tutta evidenza, non fanno della sapienza formale il loro punto di forza (...)"

Riporto questa considerazione perché è un argomento su cui occorre riflettere prima di addentrarsi in un'analisi di testi che, per gli autori di quegli stessi testi, potrebbero essere solo dei canovacci, delle partiture in vista di altri scopi espressivi e che sarebbe dunque errato analizzare secondo parametri che riguardano la pura testualità. A questo riguardo si trova però presto una risposta, perché in realtà buona parte dei poeti che hanno partecipato a Zelig ha pubblicato libri di poesia, libri che in diversi casi raccolgono anche quegli stessi testi che vengono performati agli slam. È così per Simone Savogin, per Gianmarco Tricarico, per Alessandro Burbank, solo per citarne alcuni. Se questi autori hanno deciso di optare anche per la forma cartacea e non hanno intrapreso altre strade, come quella ad esempio percorsa da Matteo Di Genova con il suo spettacolo Dixit, fruibile attraverso vari supporti multimediali prodotti dal collettivo Zoopalco, significa che hanno reputato che i loro testi potessero avere una propria autonomia anche su carta e che la loro ricezione non dovesse necessariamente e unicamente passare per la dimensione orale e performativa.


In ogni caso per rendere conto del lavoro di questi autori in relazione al format del poetry slam, non ci si baserà, per ovvie ragioni, unicamente sui testi. Nelle settimane che seguiranno, proporremo infatti, come detto, pur con le dovute limitazioni di spazio e di tempo, un’analisi che tenga conto delle due dimensioni presenti nel format, quella testuale e quella performativa, così da provare a rispondere almeno a alcune delle domande emerse, cercando anche di capire sia come il medium e più in generale la dimensione orale influenzi la scrittura sia cosa la performance aggiunga al testo, in quale modo essa possa potenziarlo o invece indebolirlo.


 








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